Il peccato del Pd

marzo 16, 2021


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Riformare il capitalismo o riformare lo stato? Il duello che manca nell’éra di Letta

Dopo le elezioni del 2018, a sostenere la causa europeista, a riconoscere il valore delle competenze e della necessità di avvalersene per governare è stato sostanzialmente il solo Pd (Forza Italia era minoranza nella destra). A tre anni di distanza, di uscita dall’euro non parla più nessuno: europeisti, più o meno caldi, lo sono tutti; e quanto alle competenze, alla testa del governo c’è la persona che tutta l’Europa considera la più autorevole nel suo ruolo. Non male il bilancio per un partito che alle elezioni non era arrivato neppure al 20%. Vantarsene esplicitamente potrebbe destabilizzare gli equilibri nella coalizione, il governo Draghi non è il suo governo, ma nelle circostanze è quanto di più vicino alla propria cultura e alle proprie posizioni il Pd possa immaginare. Neppure ricordarlo quando dà le dimissioni colui che del partito in questo periodo è stato segretario è un fatto che suscita qualche interrogativo: anche perché il Pd è stato un soggetto attivo di questa evoluzione. O forse è proprio questo il motivo: perché sia il passaggio dal Conte 1 a Conte 2, sia quello successivo a Draghi sono dovuti alla visione e alla determinazione di Matteo Renzi. E questo è ciò che il Pd non vuole accettare.

Era già capitato con Craxi. Poi fu la volta di Berlusconi, ora di Renzi. Nessuna somiglianza tra i personaggi, neppure il nome del partito è lo stesso: li accomuna solo l’“anti”, e il danno che esso ha ogni volta arrecato al partito della sinistra. Questo ha conseguenze che dalla segreteria e dal gruppo dirigente tracima all’esterno. Invece di usare la “risorsa governo” per recuperare il consenso di chi si è lasciato sedurre dai populisti, ci si lancia a superarli: nelle critiche ai Big Pharma, rei di vendere i vaccini che hanno prodotto in tempi record, o alla McKinsey, perché la consulenza a un suo cliente che produce oppiacei è stata così efficiente da essere giudicata come complicità. Non furono populisti Ciampi, Dini, Prodi, l’Ulivo, l’essere populista era l’accusa che si muoveva a Berlusconi. Conte si vanta di fronte all’ONU di essere populista: e c’è qualcuno che neppure tanto segretamente lo rimpiange. “Il riformismo è riformare il capitalismo” ha detto Bettini. Efficace come slogan, e che proprio per questo dovrebbe essere chiarito.

“Capitalismo” è una parola ma non si tratta di un “ismo” articolato in una serie di presupposti ideologici di base. La Ricchezza delle nazioni, il testo cardine del capitalismo, non parla di come gli esseri umani debbono comportarsi ma di come si comportano. Il capitalismo non è un regime politico con chiare coordinate ideologiche. E’ una parola che usiamo per riferirci al complesso delle libere relazioni economiche, liberi acquisti e libere vendite, fra esseri umani. Ampliare questi spazi di libertà ha avuto esiti straordinari: nel 1990 il 37% della popolazione mondiale ricadeva nella soglia di povertà, viveva cioè con meno di 1,90 dollari al giorno. Oggi è il 10%. Nel mentre, la popolazione mondiale è aumentata di due miliardi di persone. E’ questo il capitalismo che si vuole riformare? E in che senso?”. Si pensa a politiche di bilancio più o meno espansive, a una diversa politica fiscale, a una più efficace azione pro-concorrenziale, alla proprietà pubblica dei mezzi di produzione? Quali sono i riferimenti culturali? sono compagni da istruire o populisti da inseguire quelli che pensano che fare profitti da parte dell’industria privata non sia condizione necessaria per crescere, ma ricchezza rubata ai lavoratori? Enrico Letta è stato deciso nell’indicare la rotta: “Il governo Draghi è il nostro governo”. E quindi deciso dovrebbe essere anche nel cambiare lo slogan: riformismo è riformare il funzionamento dello Stato.

Altrettanto efficace ed evita fraintendimenti; è consono alla tradizione culturale della sinistra, e consente di usare la risorsa governo per riconquistare consenso. Perché lo Stato prende la metà di tutto quello che l’economia italiana produce; perché è inefficiente perfino nel dotarsi delle risorse umane e nell’acquistare i beni di cui abbisogna; perché non sa far funzionare la giustizia civile e fallimentare, e gestisce una scuola corporativa che non vuole né giudicare né essere giudicata, riluttante perfino in questo momento di fare qualcosa in più per evitare che ragazzi e ragazze restino segnati per tutta la vita da quello che a causa della pandemia gli abbiamo sottratto. Mentre la necessità del piano vaccinale si scontra con la disfunzionalità della divisione dei compiti tra Stato e regioni, e con l’inadeguatezza rispetto a una moderna gestione dei dati. Sarebbe bello che il congresso del Pd, quando e come potrà farsi, di questo discutesse apertamente. Magari confrontandosi su due mozioni alternative, come usava una volta; una potrebbe intitolarsi “riformare il capitalismo”; l’altra “riformare lo Stato”.

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