È ora di occuparsi della crisi più importante: il Recovery fund

gennaio 26, 2021


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Non esistono né procedure né strutture competenti per attuare i progetti concordati con l’Europa. Svegliamoci

Mai sprecare una crisi”. E invece è quello che fanno quelli che accusano Renzi di irresponsabilità, aver aperto una crisi in piena pandemia. Così facendo, ci occupiamo della crisi sbagliata: assai più grave è quella del Recovery fund. Non basta infatti la modifica del primo progetto, che Renzi ha chiesto o ottenuto: mancano i piani per accedervi, per non parlare delle capacità di eseguirli. Tutto personale e preconcetto questo strabismo? La pandemia la conosciamo ormai da quasi un anno: sappiamo misurarne l’andamento, ci siamo abituati al rimedio per contrastarla, abbiamo iniziato a distribuire i vaccini. I problemi per vaccinare il 70 per cento della popolazione sono di tipo logistico e organizzativo: la linea di comando dovrebbe avere imparato dai propri errori. Del Recovery fund invece la sola cosa che conosciamo con precisione è la somma prevista per l’Italia.

Le condizioni della Commissione per potervi accedere sono state aggiornate ancora nei giorni scorsi: ogni progetto dovrà rientrare in macroobiettivi – di ambiente, di sostenibilità, di pari opportunità – con valutazione quantitativa del beneficio rapportato al costo sostenuto; ogni intervento dovrà essere definito in dettaglio, assegnato, eseguito. E’ un compito affatto nuovo: non esistono procedure né strutture amministrative competenti ad attuarle, e quelle esistenti, se non modificate, renderebbero questo compito impossibile. I dati della P.A. sono in silos gelosamente custoditi, e quindi potrebbero non essere interoperabili. Il codice degli appalti è da anni che si cerca di modificarlo e diventa sempre peggiore. Quanto al ricorso al Tar, il presidente Prodi ha proposto, paradossalmente, di sospenderlo. E quanto al controllo della Corte di conti, oltre che sanzionare gli illeciti, sovente è di freno ad azioni legittime. I “tempi di attraversamento” cioè quelli tra fasi procedurali consecutive, incidono in media per il 54,3 per cento dei tempi totali.

Abbiamo esperienze di situazioni analoghe, seppure di dimensioni e ambizioni enormemente minori: sarebbe il caso di analizzarle e capire perché sono andate storte. Due esempi: i fondi strutturali europei, perché da anni siamo addirittura incapaci di spenderli? La rete telefonica in fibra ottica, perché non è stata ancora completata? Sarebbe il tipico investimento da Recovery fund e invece è l’esempio da manuale che non bastano i soldi per realizzare un’opera che pure tutti considerano necessaria e auspicabile. L’obbiettivo era preciso: portare la fibra nelle aree a cosiddetto fallimento di mercato, per rompere cioè il circolo vizioso tra domanda carente e investimento non economico. Per realizzarlo si fonda un’azienda pubblica ad hoc, che si aggiudica i finanziamenti pubblici e un sostanziale monopolio a operare in quelle zone. Risultato a distanza di tre anni: di metà degli impianti delle due principali gare che dovevano essere consegnati e collaudati, non risultano neppure approvati i progetti; per buona parte delle opere che dovevano portare la fibra fino agli edifici, la fibra finirà a un pozzetto a una distanza media di 19 metri (che può arrivare fino a 40), richiedendo quindi ulteriori scavi; visto il raddoppio dei tempi previsti, circa mille comuni invece della fibra vedranno arrivare collegamenti via radio che non offrono prestazioni simili. Se così dovesse andare a finire per le infrastrutture del Recovery fund, non prenderemmo neppure un euro dei fondi previsti. E’ molto probabile che, non appena in Italia e fuori si allenteranno le restrizioni, una tal mole di finanziamenti produca comunque un rimbalzo: ma la crescita, quella che dovrebbe rimetterci alla pari, perché mai dovrebbe esserci? Anzi, è possibile che la cornucopia occulti le ragioni del nostro arretramento. Che cosa sarà capace di fare una maggioranza statalista con un piano che ha puntato a massimizzare le risorse destinate agli investimenti pubblici, la cui quota ora supera il 70 per cento? Cosa per una digitalizzazione della Pubblica amministrazione che si accompagna a una massiccia assunzione di personale? Cosa da una riforma della tassazione in cui non si parla dello snellimento degli adempimenti fiscali e dell’allineamento del carico sulle imprese ai livelli di pressione fiscale dei paesi più competitivi? E cosa farà delle riforme del lavoro e dell’investimento nella formazione un governo che si è così “distinto” nelle politiche attive di inserimento e dei centri per l’impiego?

Le imprese private, quelle che hanno finora tenuto a galla il paese, che cosa si possono attendere da un governo che, per proteggerle, le isola dalla concorrenza esterna ma non abolisce gli ostacoli alla concorrenza che l’autorità antitrust già indicava cinque anni fa? Come affronterà la riforma della giustizia un governo che, per abbreviare i processi, ha abolito la prescrizione, invece di produrre la specializzazione dei giudici in materie economiche, la previsione di termini brevi per chiudere le procedure esecutive e fallimentari, e la responsabilizzazione dei giudici per il loro operato e il rispetto dei termini”? E poi c’è il problema della governance. Due sono i punti fermi: la responsabilità principale non potrà che ricadere sul presidente del Consiglio, che in base alla Costituzione è chiamato a coordinare l’attività del governo; non sarà possibile, per motivi pratici prima ancora che giuridici, bypassare i singoli ministeri che presidiano i settori nei quali gli specifici progetti andranno a incidere.

Il capo del governo, se lo riterrà, potrà avvalersi di un ministro senza portafogli a ciò delegato. Ma allo stato delle cose la presidenza del Consiglio non è dotata delle strutture organizzative necessarie per compiere una valutazione ex ante di costi e benefici dei singoli progetti. Non si potrà prescindere dalla creazione di quella che nel gergo burocratico si definisce una struttura di missione – con funzioni di coordinamento, ma senza sostituirsi alle amministrazioni, per la concreta esecuzione, monitoraggio, autorizzazione… Che recluti velocemente un numero limitato di persone competenti anzitutto all’interno delle amministrazioni pubbliche e che sia dotata di un proprio budget per attivare le necessarie collaborazioni esterne.

Quanto ai ministeri di spesa, capi di gabinetto, segretari generali, capi dei dipartimenti sono di nomina politica, sottoposti allo spoils system: ciascuno di loro può essere sostituito in caso di cambio di governo. Una ragione in più per un Conti ter? In ogni caso sarebbe necessario un vasto rinnovamento per introdurre persone con adeguata esperienza nella gestione. Progetti la cui realizzazione venga affidata ai ministeri di settore, non possono però prescindere da un’azione di monitoraggio continua, che dovrà anche essa essere svolta dalla citata struttura di missione presso la presidenza del Consiglio. Quest’ultima struttura però, incaricata della selezione dei progetti e del monitoraggio della loro attuazione, non potrà essere la medesima chiamata alla valutazione dei risultati.

La riforma costituzionale proposta da Renzi prevedeva che la valutazione dell’efficacia delle politiche pubbliche venisse svolta da una struttura parlamentare ad hoc. Forse si può tornare a quella idea. O affidare la valutazione a una Corte dei conti opportunamente riformata.

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Next Generation Italia
Associazione “M&M – Idee per un Paese migliore”, 23 gennaio 2021

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