Dopo Dalemoni non nasca Dalemelli

luglio 15, 1999


Pubblicato In: Varie


L’Economist quasi sempre, liberal qualche volta, gli altri quasi mai. Questa la mia personale consuetudine di lettura dei settimanali. E dunque quanto segue è influenzato da questa premessa: che del resto i direttori dei settimanali conosco­no bene, visto che si tratta di u­no strumento editoriale che più di tutti gli altri ha pagato un duro prezzo all’affermarsi della televisione, privo com’è rimasto della capacità sia di produrre notizie – vista la contrazione frenetica dei tempi avvenuta negli ultimi anni – che di aspirare ap­profondimenti esclusivi, prima che sia schermo a farlo.
Anche per questo, non mi spetta e non mi sento di dare a Giulio Anselmi consigli sul target del settimanale che è chiamato a di­rigere. Mi limito invece a una considerazione che sento più «mia», come parlamentare che siede alla maggioranza di centrosinistra e contemporaneamente tiene con forza alle proprie idee.

Sono passati da tempo gli an­ni gloriosi in cui aspettavo, con trepidazione l’uscita in edicola dell’Espresso per apprendere gli ul­timi sviluppi del caso Montesi. L’im­magine che ho dell’Espresso di que­sti anni è invece di un settimana­le, come dire, quasi combattentistico. Il continuo richiamo a Mani pulite. Un antiberlusconismo ac­ceso. Fino al punto di alimentare una vera e propria campagna con­tro l’attuale presidente del Consi­glio, accusato di connivenza col ne­mico affibbiandogli il nickname «Da­lemoni», mostruoso centauro mez­zo D’Alema e mezzo Berlusconi.

Di che cosa è stata espressione, questa campagna? Che valori e che scelte «forti» sottintende? Mi è ca­pitato di ripensarci domenica cor­sa, a Torino, alla celebrazione del centenario Fiat. Sia il discorso del­l’avvocato Agnelli che quello di Massimo D’Alema hanno riper­corso i decenni in cui le forze che ciascuno dei due rappresenta sono state in Fiat storicamente antagoniste. Ma nessun pathos è riecheggiato nei due interventi. A significare che il passato può essere ricorda­to, ma non rivissuto. «È morto» l’e­migrante che con la valigia di cartone approdava dal Sud a Mirafioni, ed «è morto» allo stesso modo Berlinguer che ai cancelli garantiva nell’ 80 il sostegno del Pci agli scioperatanti se avessero occupato lo sta­bilimento. La mancanza di pathos nelle parole di Agnelli e di D’Alema al centenario Fiat non signifi­cava altro che quel passato è per sempre dietro alle nostre spalle. Ed è, questa, una lezione che l’infor­mazione per prima non dovrebbe dimenticare mai.

Tornando all’Espresso la cui gui­da oggi assume Giulio Anselmi, analogamente viene da chieder­si se il problema sia davvero an­cora quella della contrapposi­zione frontale con Berlusconi, o della persistente persistente esaltazione di una pagina italiana, Mani pu­lite, che è una partita chiusa, malamente ma chiusa. E possiamo continuare per sempre a parla­re di spot pubblicitari e conflitto d’interesse? Oppure voglia­mo cominciare a parlare delle cose vere che sono di fronte a noi? Di quello che l’Italia, e il centrosinistra che oggi la guida, devono fare per non perdere il passo con le nazioni avanzate e i mercati? Del fatto, per esem­pio, che sempre più la «con­certazione» diventa per la sini­stra un feticcio che finisce per far rima con rottamazione»?

Questa sincera domanda giro a Giulio Anselmi, auguran­dogli buon lavoro. Non vorrei mai, pensavo a Turino conclusa la cerimonia, che dopo ‘tanto insistere contro Dalemoni ci attenda ora una campagna con­tro «Dalemelli», mezzo D’A­lema e mezzo Agnelli. Magari sotto l’infamante accusa di es­sere un torvo affamatore di pensionati.

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