Da Pareto a Jobs: chi vive sul mercato crea la vera crescita

ottobre 16, 2011


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


La risposta è una: più mercato

La crescita: richiesta da Francoforte, attesa dai mercati, ripetuta per cercare di dare un senso a questa desolante fase politica. Nelle quattro giornate del convegno della Banca d’Italia a Roma sulla storia economica dell’Italia nei 150 anni dall’Unità, il tema era sempre presente, esplicito o sottotraccia: un percorso, il nostro, complessivamente di crescita, ma discontinuo, con accelerazioni che ci portano quasi a raggiungere i migliori, seguito da stasi, come questa che dura da quasi vent’anni. Perché adesso questa incapacità a crescere, questa produttività bloccata? E’ cambiato qualcosa in noi, oppure è cambiato il contesto, e l’importanza relativa di certe nostre caratteristiche, positive o negative, rendono più difficile adattarcisi?

Prendiamo la scuola: ci sono critiche di Vilfredo Pareto del 1911 a cui basterebbe solo cambiare la data; ma con la seconda globalizzazione e le tecnologie informatiche è cambiata l’importanza relativa del capitale umano, oggi cruciale per il successo. Prendiamo la dimensione di impresa: le aziende piccole reagiscono più rapidamente ai cambiamenti, ma non possono sostenere la ricerca, oggi cruciale per la crescita, per mancanza di risorse per svilupparla e anche di opportunità ad usarla. Troppa regolazione rende le aziende inadatte allo stato attuale della tecnologia; e molte aziende trovano modi di guadagno più convenienti che applicare le tecnologie. L’invecchiamento della popolazione riduce la propensione al rischio e a progetti di lungo periodo (ci sono paper su testosterone e crescita). Banalmente, se le aziende non crescono è perché non conviene: e si pensa subito al fisco rapace e allo stato inefficiente che esso mantiene in vita, alle tasse pagate da chi vive sul mercato a beneficio di chi vive dello stato.

Per la crescita, oltre all’economia, conta la meta-economia: come si guarda il mondo, su che cosa si basa la fiducia negli altri, come si valutano opportunità e rischi. Conta “come ci si trova” in questa economia capitalistica di mercato in cui viviamo. Non è stato nominat nelle relazioni, ma una ricetta per la crescita è anche il testamento di Steve Jobs. “Be foolish, be hungry”: una visione dell’economia capitalistica che non ha bisogno di giustificazioni morali né necessità di calcoli di convenienza. Essere “foolish”, per credere sempre alla infinita capacità combinatoria del mercato. Essere “hungry”, per non essere mai sazi di sperimentarne le scoperte: il “greedy”, depurato da quella che alcuni trovavano coazione psicotica, diventato naturale pulsione fisiologica. Quanti di quelli che hanno ripetuto quelle parole, le hanno capite nel loro senso, e a quello aderiscono senza riserve?

“Foolish” lo sono, ma in un senso ben diverso da quello di Jobs, (e “hungry” resteremmo tutti in senso letterale, se gli si desse retta) gli indignati che hanno prima hanno cercato di assediare La Banca d’Italia. E questo proprio mentre all’interno, storici, giuristi ed economisti da tutto il mondo, per quattro giorni cercavano di individuare cause e rimedi ai problemi per cui essi manifestavano. Inutile spiegargli che Palazzo Koch non è né Palazzo Mezzanotte di Milano, né l’Eurotower di Francoforte. Le negazioni della realtà, dai catari ai luddisti, avrebbero in sé il proprio limite: ma forniscono pretesto a quelli che cercano l’occasione per passarli, i limiti.

Nicki Vendola taglia corto: Steve Jobs va “scomunicato”, farne un’icona della sinistra è “un abbaglio”: Con tutto quello che l’information technology potrebbe fare per la crescita della sua regione, il governatore della Puglia si impanca contro uno dei più grandi successi di Silicon Valley. Perché basato su SW proprietario? O perchè pensa che chi esorta a essere “hungry” di successi e di guadagni è incompatibile con la sua idea di sinistra?

Che cosa ha capito Raffaele Bonanni, di come crescono le imprese in un’economia di mercato, se scrive che “le banche popolari rappresentano la forma più compiuta di partecipazione al governo dell’impresa” perché “il voto capitario, il tetto al possesso azionario, i limiti alle deleghe configurano la forma più avanzata di democrazia economica”? Lo dice a proposito della Banca Popolare di Milano, dove “la forma più compiuta di partecipazione” ha fornito, nel controllo degli “amici” su avanzamenti promozioni stipendi, un’interpretazione di “foolish” e “hungry” assolutamente letterale. Evidentemente il segretario della CISL pensa che gli investitori faranno la coda per il privilegio di sottoscrivere l’aumento di capitale di questa “forma più avanzata di democrazia economica” e che così diminuirà il costo del capitale. Questo è il meglio della nostra cultura sindacale: in Germania, negli anni ’50, i sindacati erano più antiprotezionisti degli stessi industriali; mezzo secolo dopo, sia pure con qualche mugugno, le leggi Hartz le hanno approvate. Era un tema ricorrente in molte delle relazioni del convegno: per la crescita del Paese contano anche le istituzioni.

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