Chi controlla il nullafacente

dicembre 30, 2006


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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La battaglia può avere successo, ma non si deve mai dimenticare che il Paese ha l’amministrazione che si merita

Per sanare lo scandalo dei nullafacenti nella Pubblica amministrazione, o inducendoli a comportamenti almeno decenti o ottenendone l’allontanamento, bisogna fissare un livello minimo di prestazione. Se ci sono i nullafacenti, vuol dire che il dirigente questo livello o non lo ha fissato, o non lo fa rispettare. Cioè: o anche lui fornisce una prestazione al di sotto della norma, oppure non fa osservare le regole, per inerzia o per timore. Si tira la coda e appare la tigre.

Il problema – non tenere a libro paga chi non viene al lavoro, o ha prestazioni oltraggiosamente indecenti – che dall’esterno pare di semplicissima soluzione, si rivela il problema stesso della riformabilità della Pubblica amministrazione.
Pietro Ichino lo sa benissimo e quindi, con Archimede, chiede un punto d’appoggio esterno per sollevare la Terra: l’istituzione di un’Autorità indipendente per la valutazione della Pa. Nell’articolato che ha redatto e che, con le firme di Antonio Polito e di Lanfranco Turci, è diventato una proposta di legge, l’Autorità fornisce i criteri per le norme che il Governo dovrà emanare: per un sistema di valutazione che riguardi tutta la Pa; per liberare i dirigenti dai vincoli che ne ostacolano la messa in pratica; per individuare le responsabilità personali dei dirigenti che le disapplicassero.
L’obiettivo della battaglia di Ichino è sacrosanto, il processo attraverso cui perseguirlo è logico e coerente. Credo che l’obiettivo – risolvere almeno il problema dei nullafacenti – sia realizzabile. Proprio per questo, voglio indicare i pericoli in cui potrebbe incorrere la sua proposta, e i trabocchetti che potrebbero essere predisposti.
Il primo pericolo che vedo è la classica difesa delle burocrazie: la dilatazione del compito. I dipendenti pubblici sono 3 milioni e mezzo. L’Autorità, secondo Ichino, dovrebbe partire con 20 dipendenti, più quelli recuperati da enti che verrebbero aboliti: mettiamo in tutto un centinaio di persone sul campo. È vero che il compito principale dell’Authority è di esigere che vengano costituiti i nuclei di valutazione previsti dalla legge Bassanini del 1999, di garantirne l’indipendenza da dirigenza e sindacati, di fornire benchmark, e solo in casi eccezionali intervenire direttamente con propri controlli. Ma abbiamo l’esempio di quello che è successo con l’Autorità per la privacy, che certamente ne ha radicato l’idea come diritto individuale, che ha fissato principi importanti, ma di cui si ricordano rituali moderatamente fastidiosi a cui ci ha assuefatto, e non interventi tempestivi ed efficaci.
Il rischio è che anche questa Autorità abbia “pochi denti” e che di ispezioni, di multe ai dirigenti, di licenziamenti di dipendenti se ne vedano pochi. Ichino ne è ben conscio: e pensa che il “braccio armato ” dell’Autorità siano i cittadini, i veri “padroni” della Pa. È essenziale al successo del suo progetto che la Pa italiana diventi trasparente, come altri Paesi hanno saputo fare: l’Autorità ha proprio il compito di garantire la pubblicità dei dati e l’interazione virtuosa con i valutatori spontanei esterni. Anche quella di votare è un’azione economicamente irrazionale: eppure se la posta in gioco è sentita importante, vanno a votare quasi tutti.
Allo stesso modo è logico attendersi che molti siano pronti, per spirito civico, a spendere un po’ del loro tempo per migliorare il funzionamento della macchina che li amministra. Ma mi domando: questi dati oggi non ci sono, oppure i dirigenti li conoscono e non li usano? Se non hanno sentito il bisogno di raccoglierli finora, l’obbligo di farlo rischia di diventare come la firma del foglietto negli alberghi; se non li usano, non è che l’intervento dell’Autorità rimuova le cause di un’opacità voluta. Se poi non si riuscisse a evitare che venature di populismo inquinino il civile impegno, si creerebbe un rapporto di ostilità tra cittadino e funzionario, il quale si difenderebbe irrigidendosi. La stessa cosa che si rischia di fare nel recupero dell’evasione, quando chi evade viene criminalizzato, sempre e comunque, come un ladro.
Se il primo pericolo è per così dire orizzontale, attirare l’Autorità nelle sterminate steppe della Pa, il secondo è verticale, imbrigliarla nella logica del “benaltrismo”. Perché è pur vero che un dipendente può essere valutato solo in relazione a un ruolo e a un compito, cioè in rapporto a un’organizzazione e a una job description. Ed è pur vero che, al limite, sarebbe sciocco valutare il rendimento di un ufficio inutile, in cui il problema è sopprimere l’ufficio, non renderlo più efficiente. La valutazione della singola persona o del singolo ufficio si riconduce alla valutazione della Pa stessa, e della sua generale riforma in senso efficientista: perfettamente logico, ma così i nullafacenti continuerebbero come prima impuniti.
Ridurre le proprie ambizioni, delimitare i compiti: questo è il mio contributo alla proposta di Ichino.
Bisogna rimettere le cose nella giusta prospettiva: quello dei nullafacenti non è un problema economico (con quello che costa la Pa!) e neppure di efficienza, è un problema di equità: non è giusto che un impiegato lavori vicino a una scrivania vuota e retribuita. È questa umiliazione ciò che si deve in primo luogo evitare. Sono danni morali quelli causati da questa ingiustizia, la perdita di motivazione in chi lavora costa un multiplo dello stipendio usurpato da chi non lavora. Prendiamo di mira questi scandali, proteggiamo i dirigenti che li combattono e sanzioniamo quelli che li tollerano. E non dimentichiamo il problema analogo dei dipendenti condannati per reati contro la Pa o per reati che ne sconsiglino la permanenza nel ruolo. Quella della trasparenza è una grande idea: non usiamola per scoprire chi fa male, ma offriamola come strumento a chi è orgoglioso di far bene e ci tiene ad averne riconoscimento.
Credo che la battaglia promossa da Pietro Ichino possa avere successo. Credo però che sia utile non dimenticare che in ultima analisi un Paese ha l’amministrazione che si merita. È per le pressioni dei genitori che la maturità è diventata il rituale in cui tutti sono trattati come il pariniano giovin signore. È per una distorsione del concetto di equità che quando si decide di dare premi al merito a non più di 1/3 dei dipendenti, scatta la reazione corporativa, e il premio finisce per toccare a rotazione a tutti. Come tutte le organizzazioni, anche la Pa si riforma solo se costretta dalle circostanze: tagliare le tasse per essere obbligati a tagliare le spese. «Affamare la bestia», come dicevano nell’America di Reagan.
La riforma del modo di amministrare implica che venga riformato il modo di governare, riducendo l’area intermediata dallo Stato. Oggi invece lo Stato è al centro, i flussi di danaro in entrata e in uscita devono tutti passare di lì, anche quando si prende e si dà alla stessa categoria di soggetti, perfino allo stesso soggetto, persona fisica o impresa. Una volta ai giovani ingegneri insegnavano che il solo pezzo che non si rompe è quello che non c’é: perché non serve.

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