Cesare Romiti, un manager politico

agosto 20, 2020


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


La marcia dei 40 mila e il referendum. In due occasioni cercò di rendere l’Italia un paese più europeo

Vedevo Romiti una volta al mese per portargli i conti, quando capitava per una proposta o per un problema, a volte, per guadagnare tempo anche in macchina alla fine della giornata. In Fiat era in corso la razionalizzazione in sette settori autonomi della conglomerata che l’azienda era diventata, un po’ per l’eredità dell’autarchica “Fiat, Terra Mare Cielo”, un po’ quando si trattava di sostenere la motorizzazione post bellica degli italiani. Uscito mio fratello dopo i famosi 100 giorni, Umberto Agnelli mi aveva messo a dirigere il settore “Componenti”, una ventina di aziende, dall’Olio Fiat alla Magneti Marelli. Verso Cesare Romiti ho un debito di riconoscenza: se fu il periodo più di soddisfazione della mia vita lavorativa, è anche per merito suo. Non solo per la sua rapidità e acume nel leggere i numeri, nel capire le situazioni: ma anche perché aveva una caratteristica che raramente ho trovato in altri (e che con alterni successi provato a imitare): ti faceva sentire come se quello che gli stavi dicendo fosse per lui la cosa più importante al mondo. Fu per un disaccordo con lui su una questione di principio che lasciai la Fiat. Fu per me un momento di grande emozione: “Signora – chiamò – porti un bicchier d’acqua all’ingegnere”.

Poi i ricordi personali diventano sempre più ricordi politici: la “marcia dei 40 mila” dell’ottobre 1980, un corteo di quadri Fiat contro i sindacati che da 35 giorni, con il sostegno del leader comunista Enrico Berlinguer, bloccavano la fabbrica per protestare contro l’annunciato licenziamento di 14 mila lavoratori, fu un capolavoro di preparazione e di audacia: salvò la Fiat e impresse un cambiamento decisivo ai rapporti industriali in Italia. Le imprese italiane, le piccole e le grandi, vi videro la concreta conferma che né il governo né le associazioni d categoria era riuscito a dar loro, e cioè che a sostenere il paese sono le imprese, chi le gestisce e chi vi investe i propri risparmi. Fu un momento di svolta, bisognerà aspettare fino al 2010 per trovarne uno analogo, per importanza e conseguenze: il referendum di Mirafiori e Pomigliano. Marchionne, voleva introdurre il world class manufacturing per aumentare la produttività dello stabilimento. “Sembrava una cosa impossibile – ha scritto Marco Bentivogli – Pomigliano era ricordato per essere uno degli stabilimenti più inefficienti: dopo quell’accordo ha in poco tempo vinto premi in tutto il mondo come impianto più produttivo”.

Nel 1999 gli italiani furono chiamati a votare sul referendum, promosso da Mariotto Segni e da Antonio Di Pietro, per l’abolizione della scheda grigia con cui eleggere il 25 per cento dei deputati, la quota proporzionale del Mattarellum. Luigi Abete aveva portato Confidustria a sostenerlo e creato il Comitato per il sì, con, oltre ai promotori, Cossiga, Barbera, Martino, Occhetto: Romiti lo appoggiò apertamente e con entusiasmo. Se avesse vinto il sì, l’Italia avrebbe avuto un sistema elettorale solo maggioritario. Il 18 Aprile 1999 votò più del 49% per cento degli italiani, e l’attesa del risultato ci tenne incollati al televisore: il referendum fu respinto per 150 mila voti. A nulla valsero le contestazioni per il voto dall’estero, dove su 2.351.000 elettori aveva votato solo lo 0,5 per cento.

Ci andrebbe un libro per raccontare e valutare il Romiti prima manager poi imprenditore, le cose sue fortunate e quelle meno: a me piace ricordarlo per gli episodi in cui la mia vita, di manager prima e di politico poi, si incrociò con la sua. A torto o a ragione, Cesare Romiti è stato considerato un manager “romano”, ma in questi due momenti, distanti quasi vent’anni tra loro, ha dimostrato di volere quello che si poteva fare per rendere l’Italia meno romana e più europea.

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