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→  novembre 16, 2014


Recensione di
The end of normal
James Galbraith
Simon & Schuster, pagg. 304

Siamo vissuti nella cultura della crescita: desiderabile, dovuta e perpetua, normale, appunto. Ruolo dei governi è promuoverla, moderando i cicli economici: le recessioni saranno seguite da riprese, l’economia ritornerà al trend di lungo periodo, l’output potenziale. Non era così per gli economisti dell’epoca vittoriana: per loro, scrive James Galbraith, «il fine ultimo non era la crescita economica ma l’investimento o l’accumulazione di capitale».

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→  ottobre 12, 2014


Un lavoratore oggi prende in busta paga il 50% di quanto costa all’azienda. Che cosa succederebbe per le casse dello Stato se, anche solo per i neoassunti, anche solo per la durata di 4 anni, il lavoratore, invece del 50% prendesse l’80 per cento?

Luca Ricolfi non ha dubbi: con il “job-Italia” – questo il nome che ha dato alla sua proposta – ci sarebbero almeno 300mila posti di lavoro in più. Diminuirebbero i contributi Inps e Inail, ma aumenterebbero le tasse (Iva, Irpef, Irap, Ires) derivanti dal maggior valore aggiunto del lavoro creato da ogni nuovo assunto, che altrimenti non ci sarebbe stato. E siccome il gettito delle tasse è 5 volte quello dei contributi, a un certo punto il minor gettito dei contributi è più che compensato dal maggior gettito delle imposte.

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→  ottobre 7, 2014


Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari.
Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.
È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali.
Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

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→  settembre 26, 2014


Si parla di Telecom, e c’è sempre qualcuno che, per una ragione o per l’altra, propone di venderne la rete: quella passiva, fatta di cunicoli e di ponti radio, di doppini e di fibra. È proprietà di Telecom, le è stata venduta al momento della privatizzazione, è il collateral dei debiti fatti per comprarla. È aperta ad altri operatori in condizioni di parità, contribuisce in modo essenziale al valore di Telecom: lo si è visto anche recentemente, l’interesse di Vivendi a diventarne socio importante era determinato, oltre che dalla partita brasiliana, dalla possibilità di avere un’alleanza stabile con l’unico operatore che copre tutto il Paese. Telecom inoltre è proprietaria della rete attiva, le apparecchiature elettroniche, i computer e i programmi software. Insieme, rete attiva e passiva, forniscono il servizio di tlc.

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→  settembre 14, 2014


House of Debt
How They (and You) Caused the Great Recession, and How We Can Prevent It From Happening again

by Atif Mian e Amir Sufi
The University of Chicago Press, Chicago and London,
pagg. 220

La Grande Recessione come crisi bancaria: è la spiegazione standard. Che variamente combina eccesso di mutui garantiti dal Governo, cartolarizzazione che riduce il premio al rischio, tassi di interesse troppo bassi, mancato salvataggio della Lehman; e, per i moralisti, avidità dei banchieri e conflitto di interesse delle agenzie di rating.

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→  settembre 4, 2014


Dall’imprevedibilità viene la spinta a innovare, più che dai dirigismi

Per riformare «non basta dire no» – ai no a eliminare l’articolo 18, a ridimensionare l’obbligatorietà dell’azione penale, a privatizzare i servizi dei comuni. Bisogna ottenere il sì di chi chiede interventi che valgano a farci uscire dalla stagnazione. E per il riformatore può perfino essere più facile isolare i no che prospettano i disastri che altrimenti si produrrebbero, che rispondere ai sì, e ottenere i miracolosi risultati che ci si aspetta dall’adozione di certe politiche. Tra queste una delle favorite è la «politica industriale».

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