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→  novembre 22, 2009

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di Alberto Mingardi

In nome dell’acqua bene comune, viene sprecato ogni anno un terzo delle risorse idriche captate. Se si parte da questo dato di fatto, è difficile leggere nella vasta mobilitazione contro “l’acqua ai privati” altro che un tic ideologico.

Con il sì del Senato al decreto Ronchi “salva infrazioni comunitarie”, a partire dal 2011 i servizi pubblici locali dovranno in via ordinaria essere affidati tramite gara. Non è prevista alcuna “privatizzazione dell’acqua”: il tentativo del legislatore è semplicemente quello di razionalizzare la fornitura del servizio. E’ noto quali siano, perlomeno sulla carta, le virtù della gara rispetto all’affidamento “in house”: in primis, una maggiore accountability e meno conflitti di interessi per le Amministrazioni. Quello idrico è un ciclo chiuso:quanti si aggiudicheranno il servizio, si impegneranno a raccogliere l’acqua, renderla potabile, portarla ai rubinetti e smaltirla dopo averla depurata. La gara serve per rendere contendibile un monopolio tecnico, rispetto al quale l’ipotesi di replicare l’infrastruttura è poco praticabile. La parte in commedia assegnata ai privati è fare profitto sulla riduzione dello spreco, ponendo in essere investimenti che il pubblico non potrebbe permettersi o non saprebbe selezionare, per rendere più solide le reti e assicurando una gestione più lineare e imprenditoriale.

Che la riforma dei servizi locali sia andata a segno, è un merito non da poco del governo. Rispetto ai tentativi precedenti, però, bisogna anche segnalare che l’articolato di legge è meno netto sul tema dell’in house. Il ddl Lanzillotta (nella sua prima versione) avrebbe costretto gli enti locali a rimuovere gli impedimenti allo svolgimento delle gare. Con il decreto Ronchi, quest’obbligo non è contemplato e l’affidamento diretto è ancora ammesso sia pure in via “straordinaria” (in presenza di esigenze ambientali o sociali variamente declinabili), e previo parere dell’Antitrust.

L’altro nodo da sciogliere attiene il fronte della regolazione, sul quale non si segnala nulla di nuovo. Sorveglianza e valutazioni tecniche restano in capo ad una Commissione presso il Ministero dell’Ambiente, e alle Autorità di ambito territoriale ottimale. L’idea di un regolatore indipendente (o dell’attribuzione di funzioni specifiche all’Agcm, oppure delle competenze su acqua e rifiuti all’Autorità per l’Energia) per ora non è neppure sulla carta, ma è evidente che se la liberalizzazione deve implicare la “de-politicizzazione” un passo in quella direzione è auspicabile. Il rischio è altrimenti quello di creare delle nuove zone d’ombra fra privato e pubblico, che assieme legittimerebbero i peggiori sospetti e vedrebbero le imprese giocare un ruolo residuale, in buona sostanza finendo per assomigliare a una “burocrazia meno onerosa”. Si perderebbe così parte dei benefici dinamici della concorrenza, quelli legati all’applicazione della creatività imprenditoriale ad un certo settore – e quindi alle innovazioni nella fornitura di un servizio.

Per loro natura, le gare sono strumenti molto imperfetti per sostenere lo sviluppo di questo genere di competizione. Tuttavia, sono l’unica arma attualmente a nostra disposizione, ed è comunque incoraggiante che finalmente il Parlamento abbia cominciato un percorso. Ora si aprono altre partite, persino più vischiose, a cominciare da quelle per il controllo delle aziende municipalizzate quotate di cui dal 2015 il pubblico dovrà possedere meno di un terzo. Sempre che non si continui con la prassi dei rinvii, come verranno scelti e chi saranno i nuovi soci è una questione cruciale, e sarà la cartina di tornasole sia della capacità dei territori di adattarsi alle logiche di mercato, sia della volontà della politica di mollare la presa. Purtroppo le polemiche di questi giorni ci dicono che restiamo liberalizzatori riluttanti, e ci sfugge la lezione più importante. Cioè che è proprio perché si tratta di servizi essenziali, come il pane, che è meglio fare assegnamento sul mercato, che sulla benevolenza del fornaio o del politico.

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Dunque oggi alla Camera si va alla fiducia sull’acqua. Che bisogno aveva il governo di questo mezzo estremo per trasformare in legge un decreto, avendo i numeri di una larga maggioranza? Che fretta c’è su un tema di simile portata? È abbastanza intuibile. Se si affronta un iter normale, le cose vanno per le lunghe visto che il Pd è intenzionato a dar battaglia con l’Italia dei valori.

Entrambi i partiti hanno annunciato un fuoco di sbarramento a suon di emendamenti. Ma se accade, la storia comincia a far rumore; e se fa rumore c’è il rischio che gli italiani mangino la foglia. Cadrebbe la cortina di silenzio che negli ultimi anni ha avvolto il business legato alla distribuzione del più universale e strategico dei beni nazionali.

Il nodo è semplice. Lo Stato è in bolletta, da vent’anni non investe più come si deve sulla rete e oggi meno che mai ha soldi per un’azione di ammodernamento che costerebbe come otto ponti sullo stretto di Messina. Meglio dunque lasciare la patata calda ai privati, che con meno remore politiche potrebbero scaricare sulle tariffe il costo di un’operazione indilazionabile, e che per la mano pubblica è una delle ultime ghiotte occasioni di far cassa. Da qui un decreto che, caso unico in Europa, obbliga a mettere in gara tutti i servizi legati all’acqua e accelerarne la trasformazione in Spa, dimenticando che, quasi ovunque le grandi società sono entrate nel gioco, le tariffe sono aumentate in assenza di investimenti sulla rete.

Ovvio che meno se ne parla, meglio è. Se in Parlamento scatta la bagarre, c’è il rischio che i Comuni virtuosi (inclusi quelli con i colori della maggioranza), che hanno tenuto duro nel non cedere i loro servizi alle società di Milano, Genova, Bologna e Roma, creino un’alleanza per proteggere “l’acqua del sindaco”, cioè il loro ultimo territorio di autogoverno e autonomia dopo la perdita dell’Ici.

Se se ne parla, può succedere che gli utenti apprendano che, laddove le grandi società sono entrate in campo, le perdite della rete sono rimaste le stesse, i controlli di qualità sono spesso diminuiti e magari le tariffe sono aumentate . Magari si capisce che vi sono servizi che non possono essere privatizzati oltre un certo limite, perché allora l’acqua passa al mercato finanziario, diventa quotazione in borsa, e il cittadino non ha più un sindaco con cui protestare dei disservizi, ma solo un sordo “call center” piazzato magari a Sydney, Pechino o New York. No, non si deve sapere che siamo di fronte a un passaggio epocale, di quelli che cambiano tutto, come la recinzione dei pascoli liberi nell’Inghilterra del Settecento.

Non è un caso che si sia tentato di buttare una riforma simile nel pentolone di un decreto omnibus riguardante tutti i pubblici servizi, e non è un caso che – durante la discussione – si sia scorporato dal decreto medesimo il discorso il gas, i trasporti e il nodo delle farmacie. Gas, trasporti e farmacie erano la foglia di fico. Se oggi nel decreto su cui si pone la fiducia rimane solo l’acqua con i rifiuti, significa che l’acqua e i rifiuti sono il grande affare indilazionabile, l’accoppiata perfetta su cui si reggono i profitti delle multi-utility, e parallelamente le ingordigie della criminalità organizzata. Non è un caso che si parli tanto di “oro blu”.

La storia dell’umanità lo dice chiaro. Chi governa l’acqua, comanda. Le prime forme di compartecipazione democratica dal basso sono nate in Italia attorno all’uso delle sorgenti, quando i paesi e le frazioni hanno pensato ad affrancarsi grazie all’acqua. Lo scontro non è tra pubblico e privato, ma tra controllo delle risorse dal basso e delega totale dei servizi, con conseguente, lucroso monopolio di alcuni. Oggi potremmo dover rinunciare a un pezzo della nostra sovranità.

Paolo Rumiz

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→  novembre 15, 2009

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Resta escluso dal calcolo l’enorme contributo delle donne nell’economia domestica. Una risorsa ma anche un modello che genera le inefficienze del «familismo amorale»

Sarà in libreria nei prossimi giorni per Mondadori il volume «L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani» di Alberto Alesina e Andrea Ichino. Ne anticipiamo uno stralcio.

di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Quando cuciniamo gli spaghetti per la cena facciamo un lavoro il cui valore non viene incluso nel conteggio statistico del Prodotto interno lordo. Se, invece di cucinare, andassimo a mangiare gli spaghetti al ristorante, il lavoro di chi li prepara e di chi ce li serve sarebbe incluso nel pil. Lo stesso accade per la pulizia della casa, per la cura dei bambini e degli anziani e per tutti gli altri beni e servizi che la famiglia produce e che potrebbero essere acquistati nel mercato aumentando il pil. Non è diversa la situazione degli spagnoli quando cucinano la paella o dei norvegesi quando pescano il merluzzo per la cena. Ma in Italia l’entità della produzione familiare non rilevata dalle statistiche ufficiali è maggiore che altrove. Possiamo, allora, sostenere che il nostro Paese, grazie a quanto le sue famiglie producono in casa, sia più ricco di quel che normalmente si pensi? E se fosse vero che produciamo in casa più di quanto prodotto dai cittadini di altri paesi, non dovremmo forse chiederci se questo abbia dei costi, ovvero se dare un ruolo così rilevante alla famiglia possa avere controindicazioni, in particolare per la condizione della donna, per il sistema educativo, per il mercato del lavoro e per la struttura del welfare state?

Nel 1956 un politologo dell’Università di Chicago, Edward Banfield, poi passato ad Harvard, decide di studiare le cause del ritardo di sviluppo nel Sud d’Italia. (…) Da questa esperienza deriva uno straordinario libretto di un centinaio di pagine intitolato Le basi morali di una società arretrata. Queste cento pagine, talvolta anche divertenti, ci aiutano a capire il Sud d’Italia molto più delle migliaia di pagine scritte da economisti, storici, politologi e sociologi sulla «questione meridionale». La spiegazione dell’arretratezza del Sud d’Italia secondo Banfield deriva dalla struttura della famiglia e dal suo rapporto con la società. Ma a nostro avviso questo libro ha molto da insegnare anche su tanti altri problemi del nostro Paese, ben al di là di Montegrano e della Questione meridionale.

Vivendo a Montegrano, Banfield si convince che l’arretratezza economica, politica e sociale del Sud risiede in quello che lui definisce il «familismo amorale». Con questo termine vuole cogliere il comportamento basato sulla convinzione che ci si possa fidare esclusivamente dei propri familiari; non solo, ma che ci si debba aspettare che tutti gli altri a loro volta facciano altrettanto, ossia si fidino solo dei propri consanguinei. Quindi, atteggiamenti collaborativi fondati su un reciproco rispetto e fiducia possono esistere solo all’interno della famiglia. A Montegrano ci si deve aspettare di essere truffati dagli estranei, cioè da chi non appartiene alla propria famiglia. E di riflesso, la risposta al timore di una possibile truffa è un atteggiamento altrettanto truffaldino. Una società basata sul familismo amorale si trova quindi in un equilibrio pessimo: nessuno collabora e si fida degli altri perché nessuno si aspetta che gli altri lo facciano e offrire collaborazione e fiducia significa la certezza di essere truffati.

Si tratta proprio di un equilibrio nel senso più tecnico di questo termine: ovvero questa è una configurazione sociale stabile nel senso che a nessuno individualmente conviene cambiare atteggiamento, a meno che non lo facciano anche gli altri, tutti insieme, e con la certezza che nessuno continui negli atteggiamenti truffaldini.
Non a caso, le cosche mafiose si autodefiniscono «famiglie». La norma in queste organizzazioni è che ci si può fidare, appunto, solo dei membri della «famiglia», mentre da qualunque altra persona non appartenente alla «famiglia» ci si devono aspettare solo trabocchetti e tradimenti e quindi bisogna agire di conseguenza. In particolare, per prudenza, conviene prevenire il tradimento altrui con quello proprio.
Banfield dimostra come le conseguenze del familismo amorale siano devastanti per l’economia e la società di Montegrano, soprattutto perché impediscono la creazione e la gestione di beni pubblici fruibili da tutti, che favorirebbero la crescita economica e sociale del paese. (…)

Una famiglia molto unita che produce beni e servizi necessita di una figura che mantenga l’unità familiare e svolga il ruolo di fulcro della casa. Questa figura è tipicamente la donna, moglie, sorella e madre. Ne consegue che dove i legami familiari sono più forti la partecipazione al lavoro femminile nel mercato è più bassa perché la donna è più impegnata in casa. Non per nulla nel Sud d’Italia le donne lavorano meno nel mercato e i legami familiari sono più forti, qualche volta addirittura «perversi», come nel caso del familismo amorale di Montegrano. In un Paese che scelga di dare un ruolo importante alla famiglia, una persona che svolga la funzione di fulcro di questa istituzione è forse necessaria: ma perché deve essere necessariamente la donna a svolgerla?
Potrebbe essere che alle donne italiane piaccia così. Oppure che non piaccia affatto, ma che per caratteristiche genetiche e culturali non rapidamente modificabili siano più adatte ed efficienti degli uomini nella produzione familiare. Oppure ancora potrebbe far comodo ai mariti, ai figli e ai fratelli che le donne non lavorino o che lavorino relativamente poco nel mercato e moltissimo a casa.

In questo caso quindi le donne sarebbero costrette a questo ruolo da un maggiore potere contrattuale degli uomini. Senza stravolgere e indebolire l’intensità dei legami familiari a cui gli italiani tengono in modo particolare, non sarebbe preferibile che gli uomini partecipassero di più a sostenere la famiglia nelle sue funzioni? In Italia molti uomini se ne guardano bene, delegando tutti i lavori di casa alle loro mogli, madri e sorelle.

Forse proprio all’interno della famiglia, più che a causa della discriminazione nel mercato del lavoro, si determina lo squilibrio di ruoli che osserviamo in tutti i Paesi e soprattutto in Italia.

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di Luca Ricolfi

Non so se il mondo sia di destra, nè se stia diventando più di destra di prima: a occhio e croce direi che il mondo ha altri problemi, e se ne infischia delle dicotomie che piacciono tanto a filosofi e politologi. Quanto a “noi” io non sono affatto nato di sinistra, ma lo sono diventato a un certo punto, alcuni anni dopo essere diventato juventino (l’unica identità che considero, purtroppo, irreversibile).

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→  novembre 3, 2009

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In Senato si discute una legge sullo sfruttamento dell’«oro del futuro»

di Dacia Maraini

Ci sono poche notizie sui giornali e nessuna in Tv sulla privatizzazione dell’acqua. Eppure proprio in questi giorni si decide del nostro futuro. Si sta discutendo infatti in Senato la nuova legge che esclude ogni gestione pubblica delle acque. Non si tratta di un dilemma solo nostro. Tanti Paesi del mondo si stanno chiedendo, su stampa e televisione, fino a che punto sia lecito privatizzare un bene comune, di cui tutti dovrebbero disporre.
Il fatto è che l’acqua è in procinto di diventare l’oro del futuro e c’è chi pensa di guadagnarci sopra. Da qui la fretta di alcune grandi multinazionali per accaparrarsi i diritti di erogazione. Ho già scritto sull’ argomento. E c’è chi mi ha risposto sostenendo che le mie preoccupazioni sono esagerate perché la proprietà delle sorgenti e delle reti resterà comunque pubblica nonostante la cessione alle ditte private. Ma il diritto all’acqua si esplica solo se questa sgorga dal rubinetto e se è potabile. Il cittadino non va con il secchio al pozzo o alla sorgente o si mette in fila all’ acquedotto.
Il diritto all’acqua potabile si esercita solo attraverso la gestione e l’erogazione. In quasi tutta Europa d’altronde la privatizzazione si è bloccata o addirittura, come succede in Francia, è in atto un processo di ripubblicizzazione. La Svizzera ha dichiarato l’acqua e le reti idriche monopolio di Stato, non suscettibile di privatizzazione. Il Belgio ha fatto una legge per cui tutti i rubinetti vengono gestiti da Spa «in house», ovvero il cui pacchetto azionario è tutto in mano ai Comuni. Gli Stati Uniti rifiutano di privatizzare la gestione delle reti idriche locali che restano salde in mano ai Municipi. In tutta l’America latina poi e in atto un grande laboratorio sui beni comuni. In Uruguay, Bolivia, Ecuador e ora in Cile i parlamenti cambiano addirittura le Costituzioni per affermare tali principi. Da ricordare che in Cile la privatizzazione è avvenuta appena Pinochet è andato al potere. Oggi il governo cileno sta tornando alla proprietà pubblica. Ma perché preoccupa tanto la gestione privata delle acque? Il fatto è che quando un bene così importante passa nelle mani dei privati, la prima conseguenza è la diminuzione dei controlli, la seconda è che aumentano i prezzi (è successo a Latina dove la cessione alla multinazionale Veolia ha portato all’aumento delle tariffe del 300%) e spesso vi si infila pure la mano della criminalità organizzata (cosa accaduta in Sicilia e in Calabria).
La Lega che era contraria alla privatizzazione, da ultimo ha cambiato idea. Perché? Oggi firma una legge Fitto-Calderoli che propone addirittura di fare scendere al 30% la partecipazione dei Comuni per le società di gestione già quotate in borsa. Ai senatori e ai parlamentari chiediamo che riflettano prima di approvare una legge che arricchirà le grandi aziende private (quelle piu favorite oggi sono straniere) e impoverirà le nostre amministrazioni pubbliche.

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Tante le sfide da vincere

di Maurizio Lupi

C’è una parola che, negli ultimi anni, è diventata centrale nel dibattito politico italiano. È la parola «anomalia». Anomalo è, secondo studiosi e intellettuali, Silvio Berlusconi. Al punto che dal 1994, con cadenza più o meno regolare, gli stessi ci preannunciano la sua fine. Il ragionamento è chiaro: un’anomalia non può durare in eterno anzi, proprio perché si tratta di un evento eccezionale, è naturalmente portato a esaurirsi.

La mia impressione è che ad essere anomala sia tutta questa discussione. Da 15 anni quest’uomo continua a governare il paese e a godere della fiducia degli elettori. Impossibile non domandarsi: perché? Io credo che ci sia anzitutto un motivo storico. Dopo la fine della prima repubblica il sistema politico italiano ha imboccato la strada della semplificazione. Via via sono andate affermandosi aggregazioni politiche forti, guidate da leadership riconosciute e consacrate dal voto di milioni di cittadini. Le tre cose sono profondamente legate: non può esistere aggregazione stabile in grado di governare se non guidata da una personalità forte in cui gli elettori si riconoscono. Per capirlo basterebbe guardare cosa sta accadendo nel Pd dove, dopo mesi, si è ancora alla ricerca di un leader. E questo ha prodotto, come risultato immediato, un calo di consensi.

Fondamentale però, affinché chi guida sia politicamente credibile, è che si presenti non contro qualcuno, ma con una proposta, con dei contenuti. Il fallimento di tutti i governi di centro-sinistra degli ultimi anni ne è la dimostrazione concreta.

C’è poi un altro elemento che, secondo me, sta alla base del successo di Berlusconi, ed è l’aver capito prima di altri che una forza come la Lega, che dopo la fine della prima repubblica raccoglieva il malumore di una parte importante del paese, potesse governare dentro l’alleanza con un partito di dimensione più nazionale. Questo ci ha permesso di rispondere in maniera efficace ai bisogni del Nord senza dimenticare le esigenze del Sud. Non è un caso che oggi, anche i nostri avversari, si interroghino su come riuscire ad essere una forza nazionale e, allo stesso tempo, federale.

Infine la sfida più grande vinta da Berlusconi è stata sicuramente quella di ricomporre la distanza tra politica e cittadini. Come? Traducendo ideali, valori e programmi in fatti e azioni concrete. Avendo sempre ben chiaro che questa “moralità del fare” vive non sulla centralità dello stato, ma sulla capacità di puntare sulla persona e sulla sua libertà. Questi elementi mi fanno dire che Berlusconi incarna in maniera perfetta l’evoluzione del sistema politico nazionale. Un’evoluzione che è stata fortemente voluta dai cittadini. Non si tratta quindi di un’anomalia, ma della risposta a una domanda del paese che è ancora viva, oggi più che mai.

Per capirlo basterebbe un dato: in questi 15 anni il consenso intorno alla sua figura e al centro-destra è cresciuto esponenzialmente. Anche adesso che è al governo, nonostante le campagne mediatiche e gli assalti giudiziari, non si registrano significative flessioni. E siccome la fine di una leadership non la decidono né gli intellettuali né i politologi, mi sembra che il rischio di una prematura conclusione dell’esperienza berlusconiana sia da escludere categoricamente.

Certo, sappiamo bene che il consenso non è tutto. Quando questa maggioranza si è presentata alle urne nel 2008 lo ha fatto cosciente che ciò che l’attendeva era una sfida: riuscire a far ripartire una paese fermo sulle emergenze quotidiane che rischiava di essere spazzato via dalla crisi economica. Oggi quel compito non è esaurito, tutt’altro. Nei primi 18 mesi (appena 18 mesi di governo!) sono state messe in cantiere riforme importanti come il federalismo fiscale, la giustizia civile, la scuola o quelle delineate nel libro Bianco redatto dal ministro Sacconi, ma ancora tanto resta da fare. Servono, come scriveva Giuliano Ferrara alcuni giorni fa sul Foglio, «palesi atti di liberalizzazione istituzionale, politica, economica e sociale».

Ma non è la sola sfida che attende Berlusconi. Se da un lato bisogna continuare a camminare decisi lungo la strada delle riforme, dall’altro occorre portare a compimento il progetto del Pdl come partito dei moderati, sintesi delle grandi tradizioni politiche del nostro paese (socialista, liberale, cattolica e della destra moderata), che, primo e unico nella storia della seconda repubblica, è riuscito a raccogliere il consenso di quasi il 40% degli elettori. Questi sono i compiti che attendono Silvio Berlusconi. Con buona pace di chi, da 15 anni, preannuncia la sua fine.

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