Berlinguer, Fassino e le radici (da tagliare) della sinistra

ottobre 7, 2003


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Il libro di Antonio Tatò uscito quasi in contemporanea con quello del leader DS

A “Caro Berlinguer”, le note e appunti di Antonio Tatò al leader del PCI negli anni 1969-84, ci si può avvicinare come a una preziosa testimonianza del passato, oppure come a pagine di un libro ancora aperto. E’ Piero Fassino, il leader della forza politica che di quel PCI è evoluzione diretta, a dirci che la scelta obbligata è la seconda. Nel suo recentissimo “Per passione”, Fassino così chiosa la scomparsa di Berlinguer: “il partito si scopre orfano, non solo di un leader carismatico e autorevole, ma anche di una strategia, di una politica, di una prospettiva… ci sarebbe bisogno di un colpo di reni, di quella ‘svolta’ che invece arriverà soltanto nell’89…”. Lama non viene allora scelto come successore, “perché troppo riformista”.

Ed ecco che Fassino ci consegna il nesso con l’oggi: “Non stupisca. In politica si commette spesso l’errore di subordinare i tempi della realtà a quelli dell’organizzazione. E così, se una scelta appare troppo radicale o di rottura, e quindi rischiosa, si preferisce rinviarla, attutirla, graduarla, oltre ogni limite ragionevole. Prevalgono insomma l’autoreferenzialità, lo spirito di conservazione, l’arroccamento”. Ci torneremo, sull’errore che proprio a Fassino tocca non commettere oggi, proprio rifacendo i conti da Berlinguer. Ma torniamo alle note di Tatò.
Innanzitutto è legittimo sostenere che Tatò “é” Berlinguer, quanto meno una sua magna pars. Portavoce di Enrico Berlinguer, ne fu anche per 15 anni la persona più vicina e fidata. Tatò gli si rivolge con rispetto, ammirazione e affetto. Nella adesione “mistica”, i pensieri dell’uno “sono” ontologicamente quelli dell’altro: la suggestione è che quegli appunti rendano il pensiero stesso di Berlinguer.

Le lettere di Tatò riguardano entrambi i piani su cui si svolse il confronto tra comunisti e partiti “borghesi” in Italia: la battaglia ideologica tra due visioni del mondo e della società, e la prasseologia del potere, tra elezioni, alleanze, governi. Per i comunisti – che avevano nel marxismo leninismo e nella lotta di classe un “teoria del tutto” che orientava la “freccia della storia”; e nello storicismo ciò che ricomprendeva tutti gli avvenimenti in quella visione – i due piani dovevano essere connessi: la prassi doveva derivare dalla teoria e dall’analisi. La “teoria del tutto” esige riposte impossibili: come si realizzerà l’avvento del socialismo nel mondo? E’ socialismo quello che c’è in URSS? Le lunghe pagine dedicate ai quesiti sono contorsioni dolorose. Ancora nel ‘76 a commento del discorso di Berlinguer al XXV congresso del PCUS, Tatò svolge un lungo ragionamento, che, tradotto, afferma: la ragione per cui l’Occidente deve diventare socialista è per consentire all’URSS di esserlo.
Due anni dopo, 1978: “l’URSS è comunque superiore alla socialdemocrazia. Se non crediamo più a questo significa che facciamo nostro – noi comunisti – il giudizio non solo manicheo ma reazionario secondo cui la storia e la realtà sovietica sono state un puro errore, che abbiamo sbagliato a nascere” (corsivo mio). 1981, la Polonia: bisogna “tornare al nostro grande metodo, alla nostra grande lezione storicista”, dunque “adoperarsi perché i paesi del socialismo finora realizzato non si sfascino ma reggano, fino a che nei paesi capitalistici il movimento operaio europeo occidentale [realizzi la] affermazione dell’eurocomunismo e della terza via”.

Oltre alle contorsioni sulla ideologia comunista nel mondo, Tatò-Berlinguer non hanno dubbi sul fatto che “la teoria del tutto” obblighi anche a scelte conseguenti nella realtà italiana. La chiave più interessante non è tanto quella dell’emergere di vicende o particolari davvero nuovi o significativi intorno al “cuore” della scelta berlingueriana che ne costituì il canto del cigno, cioè il compromesso storico. Quanto invece il sistematico affiorare della costante conferma di incarnare quella “diversità” di ordine etico che costituì il fondamento sia della coraggiosa apertura politica, la solidarietà nazionale, sia del successivo disperato arroccamento, la svolta di Salerno. La “diversità” del PCI, della famosa intervista di Berlinguer a Repubblica del 28 Luglio 1981, non è solo “autocontemplazione morale” come ha scritto Sergio Romano, é quella di chi possiede la “teoria del tutto”. “Il PCI non è come gli altri partiti” dice Tatò al DC Galloni. E, due anni dopo: “Craxi [...] ci invita a considerarci tutti della stessa famiglia: ma quale famiglia? Noi siamo diversi da questa famiglia, apparteniamo a un’altra famiglia… Il PCI [è] l’unico partito pulito e efficiente e rispettoso delle regole democratiche costituzionali”.

Anche i resoconti degli incontri di Tatò con i leader politici dei partiti “borghesi” risultano un affresco impressionante costantemente fondato sulla “diversità”. Dal che discendono due conseguenze di ordine generale per i dirigenti di chi allora militava nel PCI, a tutt’oggi ferite aperte da cui ancora stilla sangue. La prima si chiama Bettino Craxi. Su di lui il giudizio é implacabile: “Un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia, ai lavoratori, ai loro profondi e reali interessi, ideali e aspirazioni” (1978). Craxi “è” Mussolini: “Il suo modo di vedere la politica e il suo modo di ragionarci sopra è di chiaro stampo mussolinesco, cioè narcisistico e intimidatorio”(1981). Ed è “alla Mussolini” che Craxi “potrebbe fare un Governo diverso… nel senso che con lui cesserebbe l’occupazione e la spartizione di fette dello Stato, perché si approprierebbe di tutto lo Stato ricorrendo a qualsiasi colpo di mano”. In cosa consiste però a ben vedere l’immoralità di Craxi? Rubare? No. Si scopre che è la “pretesa di far funzionare lo Stato, le istituzioni e il sistema dei partiti mantenendo la preclusione anti-PCI” (Ottobre 1981).
La seconda ferita aperta è quel sistema politico istituzionale che oggi si accusa Craxi di aver voluto attentare e che, nella vulgata, viene descritto e rimpianto da molti come una sorta di paradiso perduto. I lunghi resoconti delle corrispondenze di amorosi sensi che i leader del pentapartito riservano a Tatò-Berlinguer, affascinati dal miraggio di quel 30% e più di voti sterili di cui dispone il PCI, dovrebbero essere mandati a memoria dagli affabulatori del ritorno al proporzionale. Le spasmodiche offerte di far cadere Craxi prima del decreto sulla scala mobile, che i De Mita e gli Spadolini riservatamente inoltrano a Botteghe oscure, vengono rappresentate nelle note come conferma del degrado morale altrui rispetto alla propria “diversità”. Nella realtà, descrivono alla perfezione il meccanismo attraverso il quale proprio “la diversità” diventa esca allettante di una instabilità permanente, diga impossibilitante a un cambiamento vero. Per fortuna venne la preferenza unica prima, e, sia pure per un soffio e con il Mattarellum, il maggioritario poi. PCI e DC erano già culturalmente finiti: “sono vent’anni”, scrive Michele Salvati, “che la società italiana aspettava Berlusconi. L’autostrada politica si aprì durante la crisi del 1992-94. L’autostrada sociale era aperta da tempo”. Ma in realtà lo stato maggiore berlingueriano quei conti con “la diversità”, e col proporzionale come recinto di un superiore fondamento etico che obbligava a “non mischiarsi” con altre degenerate culture politiche, non li fece alla morte di Berlinguer, e non li ha fatti per molti versi ancor oggi.

Sarebbe sbagliato pensare che dell’entusiasmo che Berlinguer raccolse in vita e delle emozioni che suscitò con la sua morte non resti altro che il poster con la sua immagine sorridente, in tutte le sedi DS. Della “teoria del tutto” vibra ancora a sinistra la radiazione di fondo, diffusa e risorgente come la fede in Dio per i cristiani dopo la crocifissione; é diventata il politically correct, un sistema di convenzioni per riconoscersi e per orientarsi, “deboli nelle scelte concrete ma forti nei princìpi etici”. Stemperato il suo “austero umanesimo” in “un filantropismo di fondo, una tonalità socialista leggermente commossa, un retrogusto dolceamaro di lacrime”, sembrava che l’immagine di Berlinguer fosse destinata a restare simbolo per le “malinconie di sinistra” di tanti post italiani di cui ha appena scritto Edmondo Berselli nel suo libro.
Per Piero Fassino, Berlinguer è il giocatore di scacchi che ha capito, prima che la partita finisca, che la sconfitta è inevitabile, e a cui rimane solo di morire prima dell’ultima mossa. Ma il nome di Berlinguer è ancora segno di contraddizione. Sergio Cofferati, che pure ebbe con lui non pochi contrasti, qualche settimana fa lo ha rimpianto come il simbolo di una sinistra radicale che si estenda fino a Rifondazione. Eugenio Scalfari, sul Venerdì di due settimane fa, vede il lui l’antesignano del rifiuto totale che si dovrebbe opporre a Berlusconi: “la sola critica da fare al segretario del PCI” quando rifiutò l’alleanza con Craxi “potrebbe essere quella di aver visto con dieci anni d’anticipo ciò che sarebbe accaduto nel 1994″. E proprio Occhetto, che con la svolta della Bolognina chiuse la storia del PCI di cui Berlinguer fu l’ultimo grande protagonista, viene oggi acclamato dalla sinistra DS che quell’eredità non intende disconoscere.
Le lettere di Tatò sono dunque un documento di provocatoria attualità. DC e PCI non ci sono più: ma se non si fanno i conti con il proprio passato, c’è il rischio che, tra brandelli di vecchie storie e comprensibili prudenze, anche il progetto del partito riformista in cantiere per le prossime europee si riduca a un trade off in cui i dirigenti restano, e la nuova formazione discenda inerzialmente dalla storia inscritta nel DNA del troncone potstcomunista e di quello prodian-dossettiano, insomma una riproposizione aggiornata del compromesso storico fondato sulla diversità etica: un tempo, di Moro e Berlinguer contro Craxi, oggi, dei loro eredi contro Berlusconi.

Rieccoci al giudizio iniziale di Fassino, sul “rinviare, attutire, graduare, oltre ogni limite ragionevole, una scelta politica quando appare troppo radicale e rischiosa”. E’ proprio a Piero Fassino che tocca compiere oggi questa scelta. Tagliando cosa c’è ancora da tagliare di quel “suo” Berlinguer. Il problema delle radici continua a riproporsi. Non può nascere una formazione unitaria e nuova a sinistra, senza affrontarlo. D’Alema ha avocato a sé questo ruolo, e subito sono sorte nuove e risorte vecchie diffidenze. Fassino non potrà evitare di svolgerlo lui. Dovrà farlo sulla base di una lettura condivisa della storia recente, una lettura concreta, come ha detto Michele Salvati sabato a Orvieto, tra il cielo dei valori e la terra del paese: di una lettura revisionista della storia; dovremo riconoscere che molte parti della nostra storia, fin da Gramsci, erano false; e che altre parti, come antifascismo e Resistenza, sono ormai da affidare ai cultori. Dovrà farlo sulla base di un futuro in cui “di fronte alla modernità finalmente raggiunta del capitalismo dispiegato”, scrive Giulio Sapelli, “le classi politiche del socialismo europeo, ancora così profondamente imbevute di nazionalismo economico e burocratico, non possono rappresentare altro che se stesse”.
Può sembrare paradossale. Berlinguer non è caduto alla tribuna per l’elezione del parlamento europeo nel 1984; la sua eredità pesa ancora nella campagna elettorale di quello che eleggeremo vent’anni dopo.

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