Una crisi anche per la sinistra con un ruolo solo subordinato

dicembre 14, 2002


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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“Combattimento per un’immagine” era una delle mostre che si tennero a Torino tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70, anche con il contributo, di idee e di entusiasmo, della famiglia Agnelli. Potrebbe essere il titolo della drammatica vicenda di questi giorni. Perché quella per la Fiat è stata una grande battaglia mediatica, nel doppio senso che si è giocata sui media e che ha avuto come posta i media.

E’ incominciata proprio alla presentazione di un libro del sommo sacerdote del rito comunicativo, Bruno Vespa, quando Silvio Berlusconi ha pronunciato il suo “con questi non vinceremo mai”. Ministri sindacati e dirigenti si accapiglino su cassa integrazione e riduzione di orari; lui aveva catturato l’attenzione e il consenso con l’immagine di un “polo del lusso”: via il vecchio marchio logoro, il sogno di una Ferrari per tutti. C’è chi – a destra come a sinistra – chiede l’intervento dello stato nell’azienda: lui entra nel capitale in modo virtuale, e, per diritto mediatico, indica strategie e uomini per realizzarle. Tutta sui media si è giocata la partita, tra editoriali e interviste, e battute carpite dai microfoni innalzate a fare i titoli di prima pagina. Tutta per i media la si è giocata: l’attenzione di politici e commentatori è stata rivolta non alle auto, ai giornali; non ai sindacati operai, ai sindacati di voto; non a che cosa può fare il gruppo vendendo i gioielli di famiglia, ma che cosa può farne chi li compera. Invece di idee per bloccare la perdita di quota di mercato, le “muse inquietanti” a bloccare ogni ragionamento: Ligresti che potrebbe diventare uno dei membri del patto di sindacato di HDP; la vendita della Toro che potrebbe influire sul controllo di Capitalia e quindi di Mediobanca e quindi di Generali, a cui potrebbe approdare Mediolanum. In un labirinto di infinite combinazioni, proprio grazie alle costruzioni per cui è famosa Mediobanca.

Fiat Auto rappresenta circa il 50% del fatturato di Fiat Spa. La quota di mercato di Fiat Auto in Europa era l’11% nel 1998; è il 7-8% quest’anno. In Italia, nei primi 11 mesi del 2001 le marche estere hanno venduto il 3% meno dello scorso anno, Fiat il 20% in meno. Novembre 2002 su novembre 2001, immatricolazioni Italia +1,3%, immatricolazioni Fiat -24%. Vanno i modelli vecchi, quello nuovo è un flop alla Edsel. La situazione ha cause remote, e cause esterne. Ma la principale responsabilità ricade per forza su conduzione e strategia degli ultimi anni: svilupparsi in settori diversi, e attraccare poi l’auto in un porto sicuro. Per farlo, il gruppo ha speso 9 miliardi di €, oggi ha un indebitamento netto di 6 miliardi di €; l’aggancio a GM avverrà in condizioni fallimentari: ammesso che avvenga. Legittimo che qualcuno veda il rischio di non tenere fino a settembre 2004, pensi che questo piano sia fallito, che si debba cambiarlo, insieme a chi ne è l’autore; e che sia necessario adattarsi alla regola per cui ciò che non riesci a vendere, devi per forza gestirlo. Legittimo che altri, sempre all’interno del Gruppo, abbiano pensato che si dovesse continuare sulla vecchia strada. Ma non è andata così.

Non è andata così perché di questo nuovo piano che riguardi il grosso del problema, le 200.000 persone (indotto compreso), non si è mai visto neppure una riga: è stato bocciato appena noto il nome del referente del possibile autore. Ha tenuto banco il progetto di spin off di Alfa e Ferrari, in sostanza un franchising che, come le cartolarizzazioni di Tremonti, porta cassa, ma non risolve il problema strutturale. Non è andata così perché a decidere non è stata la proprietà; ma il sistema bancario. Non le Hausbanken alla tedesca, non una banca d’affari pratica di ristrutturazioni: ma un pool di banche, due delle quali da tempo alle prese esse stesse con formidabili problemi di ristrutturazione. Prima a quella strategia hanno fornito i crediti; poi, spaventatesi, si sono preoccupate di collateralizzarlo. E non vogliono sentire parlare di un nuovo piano, nel timore che per evitare il disastro dell’auto, a qualcuno venga in mente di utilizzare i beni dati a garanzia.
Questa vicenda segna un profondo cambiamento nel sistema capitalistico italiano. Inanzitutto perché ne segna la compiuta smaterializzazione: il primato dell’informazione sulla produzione, del consenso rispetto alla scelta, dell’immagine da desiderare rispetto all’oggetto da fruire. In secondo luogo perché, dopo che per anni si è discusso dei “due capitalismi”, di modello mercatocentrico e modello bancocentrico, ne abbiamo adottato uno che potremmo chiamare debitocentrico: o centrobanchico. E infine per le conseguenze che da ciò discendono sui diritti legati ai titoli di proprietà: perché tra shareholder e stakeholder, sono i creditori ad avere diritti di decisione a cui non corrispondono responsabilità. E perché su alcune partecipazioni, quelle che portano al controllo dei giornali, il diritto di proprietà è di fatto sospeso e sostituito dall’obbligo di surrogare poteri pubblici nel garantire pluralismo e indipendenza dell’informazione.

Quello che stupisce è che sia stata la sinistra a sanzionare questo cambiamento. In un ribaltamento dei riferimenti su cui ha costruito la sua storia e su cui basa molto del suo consenso; accettando di giocare sul terreno dei media, quello preferito dell’avversario, e in posizione di sostanziale subordinazione per cui il nemico (?) del mio nemico è mio amico; chiudendo pregiudizialmente la porta ad un progetto alternativo, dopo aver criticato quello attuale perché misero e avaro. Fatti che suggeriscono considerazioni amare, e richiamano alla mente le parole di Paul Valéry: “sconfessano per sopravvivere quel che promettevano per esistere”.
Verificandosi sulla più grande impresa manifatturiera, gli esiti di questa vicenda avranno, per il ruolo dell’industria nella nostra società, conseguenze permanenti. Quanto ai problemi dell’auto, per qualche diecina di settimane sono risolti.

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