Un uomo piccolo piccolo

agosto 3, 1996


Pubblicato In: Giornali, La Repubblica


Io, ebreo, incontro Priebke nella sua cella

Dalla finestrella del­lo spioncino vedo Erich Priebke di profilo. E’ seduto su uno sgabello e guarda la te­levisione. «Guten Abend, Herr Priebke, vorrei scam­biare alcune parole con lei».

Sono entrato nel carcere di Regina Coeli per cercare di capire. Io ebreo vorrei scopri­re un sentimento, un’emozio­ne, un ragionamento o alme­no la traccia di un ricordo in quell’uomo di ottantatre anni – venti anni più dei miei – che ha partecipato al massacro delle Fosse Ardeatine. Parla­re in tedesco mi viene sponta­neo. E’ una lingua che amo moltissimo, è la lingua di Mu­sil e di Thomas Mann, da lui ho chiamato mio figlio Tommaso.

Priebke si è alzato dallo sgabello e mi offre da sedere. Korrekt, come direbbero i tede­schi. Non ha nessuna reazione di sorpresa nemmeno quando gli spiego che il mio nome è Debenedetti manifesta una origine ebraica e che per quell’origine alcuni dei miei parenti sono morti. «Ah bene, lei parla tedesco – è la sua ri­sposta – oggi sono venuti già parecchi parlamentari».

Il maresciallo che mi ha ac­compagnato in cella mi rac­comanda di non toccare argo­menti riguardanti il giudizio.

Non ce n’è bisogno. In fondo non mi interessa accertare una specifica responsabilità processuale. «Non sono un giudice, Herr Priebke – gli di­co – Voglio capire le persone e i sentimenti che provano. Lei cosa provava allora? Lei cosa ha pensato in tutti questi an­ni? C’era odio dappertutto in quel tempo di guerra, e lei co­sa sentiva?».

Priebke si è seduto sul letto. Indossa una canottiera bian­ca a maniche corte. I pantalo­ni del pigiama, a strisce mar­roni e bianche, sono tirati su a mezza gamba o forse sono dei bermuda. «Noi a Roma stava­mo molto bene», risponde. «Non c’era odio per nessuno. Kappler voleva che Roma fos­se tranquilla». La faccia di Priebke è proprio come nelle foto. Il volto segnato dalle pic­cole macchie dell’età, gli oc­chi acquosi e uno sguardo che non posso definire altrimenti che “preciso”. Il capitano del­le SS è korrekt anche nella vo­ce. Nessuno sbalzo nell’into­nazione, nè troppo alta nè troppo bassa. «Non mi ricor­do proprio di odio», ripete con la modulazione di chi ha una corazza che niente può pene­trare. «Non so neanche perchè in quell’elenco ci fossero ebrei. L avrà fatto qualcun al­tro l’elenco. Forse qualche italiano».

E’ lì che ho uno scatto. Gli dico che non si mettono insie­me settantacinque ebrei per caso, che in Italia siamo una piccola minoranza, che al massimo se ne possono trova­re tanti insieme in una sina­goga «e non erano anni in cui gli ebrei frequentavano le si­nagoghe!».

«Noi eseguivamo ordini», ribatte Priebke. Ripetitivo, maniacale, persino modesto nella mancanza di qualsiasi variazione nel tono. La sua te­si me la ripeterà sistematica­mente durante tutti i quaran­tacinque minuti di colloquio. Non si accorgerà nemmeno di contraddirsi quando mi spiega che in fondo l’esecu­zione avrebbe dovuto farla il maggiore Do­brich del reggimento Bozen, quello diretta­mente coinvolto nel­l’attentato di via Rasella, ma Dobrich si è rifiutato, diceva che i suoi uomini erano cattolici e si rifiutavano e allora l’ordine è passato a Melzler» e poi a Von Macken­sen e poi la faccenda è torna­ta a Kappler e infine è appro­data alla polizia, cioè a lui Priebke.

Dunque non tutto era un meccanismo inanimato, dun­que – cerco di suggerirgli – c’e­ra chi faceva di più e chi face­va di meno. «Noi eseguivamo ordini», ripete con la voce che non cambia mai. Forse si è ac­corto che faccio proprio fati­ca ad ascoltare questa frase e allora aggiunge: «Noi erava­mo molto addolorati per la vicenda. Avevamo amici tra gli italiani. Per noi era un dolore. Io, poi, avevo un buono sti­pendio dall’ambasciata».

Nella piccola cella rettan­golare dove la televisione ha smesso di trasmettere i suoi programmi in bianco e nero Erich Priebke mi racconta di quel po’ d’Italia che ha cono­sciuto oggi. La gente sta meglio, afferma, e tutto oggi è così hektisch, di corsa, affanna­to. In Argentina era abituato a leggere il Corriere della Sera, ma adesso ha cambiato per Il Giornale: «E’ meno violento nei miei confronti. Non fa di me il mostro che non sono».

E quei sei milioni di ebrei periti nell’Olocausto non era­no stati trasformati in qualco­sa che non erano? Non erano stati deformati in simboli, il nazismo non aveva oscurato la loro esistenza di persone? Glielo chiedo a Priebke.

«Non c’era odio da parte no­stra». Anzi, aggiunge, «a Ro­ma non abbiamo neanche de­portato ebrei. Quando nel ’43 è stata fatta la retata hanno fatto venire un commando speciale dalla Germania». Kappler, insiste l’uomo sedu­to di fronte a me sulla brandina, voleva proprio che Roma fosse una città tranquilla.

Tranquillo è anche lui. Non è annoiato dalle domande che gli sono state rivolte durante la giornata. Non è irritato. Non è teso. Le gambe acca­vallate sono immobili, le ma­ni non si muovono quasi mai. Ogni tanto nella sua parlata italiana si infiltra un interca­lare spagnolo. Entonce, Jefe e altre parole apprese in Argentina.

Lentamente si fa strada in me una sensazione di frustrazione. Non si riesce a capire se l’ossessiva ripetitività di quest’uomo piccolo, piccolo sia solo un mezzo per rimuovere una verità profonda nascosta sotto una scorza spessissima o se veramente nel corso degli anni le frasi ripetute e le giustificazioni ribadite siano di­ventate l’unica realtà possibi­le.

Il giorno della sentenza, racconta, ha provato paura, «ma capisco l’odio». Come se si trattasse di un evento natu­rale che sfugge totalmente al­le sue responsabilità.

Provo a chiedergli cosa pensi della valenza politica del suo processo, che si svolge a cavallo di un’Italia che mu­ta. E’ cominciato sotto un go­verno alleato alle destre, è proseguito sotto un governo tecnico, è terminato quando il paese si è dato un governo di centro-sinistra. «Lei ha la pro­va — gli dico — che la giusti­zia italiana ha pronunciato una sentenza non politica.

Non pensa?

Priebke non reagisce. Tutta la colpa, spiega, è solo del cen­tro Wíesenthal di Los Ange­les. «Io sono l’ultimo a cui da­vano la caccia». Delle sedute in tribunale ricorda soltanto che «tutti della parte civile erano ebrei».

Io lo ascolto e mi vengono in mente gli ultimi anni di guer­ra trascorsi in Svizzera. Via via che gli americani avanza­vano e aprivano i lager, sui settimanali e sui rotocalchi apparivano le foto delle vitti­me dei campi di concentra­mento.

Le ho ritagliate tutte quelle foto, le ho tutte. E lì, nel carcere di Regina Coeli, mi rendo conto dell’immensa sproporzione tra i miei ricor­di, le mie emozioni e la voce di quell’uomo così modesto. Io so il tedesco, gli spiego, pro­prio perché la mia famiglia è stata costretta a fuggire in Svizzera, «per causa vostra». E durante gli anni dell’esilio sono stato costretto a impara­re il tedesco. Intorno a me un gruppo di secondini segue in silenzio. Sono attenti a che io non violi il regolamento e so­no incuriositi per la presenza dell’uomo politico o forse per­ché ho i capelli bianchi e sono un ebreo.

Questo colloquio non mi dà niente. E’ così grande l’abisso tra il Fatto e la Persona. Il maggiore Dobrich si è rifiuta­to di compiere la rappresa­glia, ma per Priebke non si­gnifica niente. Io parlo con to­no volutamente normale, sen­za nessuna emotività, uso la sua lingua eppure per l’SS non c’è nessuna erità da rista­bilire, niente da ripensare o da accertare.

«L’unica cosa – afferma il mio interlocutore – è il tempo che mi rimane prima di mori­re».

Sono stanco. Mi alzo e nella lingua di Thomas Mann di­chiaro: «Non desidero tratte­nere più a lungo lei e i signori che sono qui presenti».

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