Un’equità futura e improbabile vale l’iniquità presente e reale?

luglio 23, 2002


Pubblicato In: Giornali, La Stampa

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La lite Biagi-Chiesa: ragioni ideali e contraddizioni

Non credo fossi il solo a essere giunto alla conclusione che di art. 18 e di riforme del mercato del lavoro per un po’ non si potesse più parlare. E invece, ecco lo scoop di sabato della Stampa: pubblica il resoconto del giorno in cui Marco Biagi ne discusse con la Consulta per il Lavoro della Cei, e ci ricorda che questi sono temi che toccano i fondamenti etici del nostro presente, e le prospettive concrete del nostro futuro. E che quindi non si può considerare chiusa, sia pure temporaneamente, la partita, limitandosi a consuntivare i danni: quelli sociali e politici di una battaglia muro contro muro condotta in nome dei diritti; e quelli di una riformicchia condotta in nome del debole argomento dell’occupazione incrementale.

«Il giorno in cui Biagi litigò con la Chiesa» titola La Stampa. E qui è necessaria una precisazione: la Consulta del Lavoro è formata dai responsabili diocesani delle pastorali sociali, che i vescovi, da tempo immemorabile, lasciano che siano indicati dalla Gioventù Operaia Cristiana. È un organo «consultivo» e dunque il suo pensiero non si identifica con quello della Cei; tanto meno i suoi componenti sono «delegati del Welfare vaticano». Questo tanto per avere presente che la Cisl, ad esempio, con la sua firma al Patto per l’Italia, non corre certo il rischio di scomuniche. Alfredo Recanatesi, sulla Stampa di ieri, efficacemente sintetizza così le ragioni del «litigio».

Da un lato Biagi a spiegare ragioni e obiettivi del suo Libro Bianco: spalmare il livello di tutela su una più vasta platea di lavoratori, riducendolo per gli iperprotetti a vantaggio di chi di protezione non ne ha alcuna. Dall’altro, i responsabili delle Pastorali del Lavoro, che non accettano come un dato gli attuali rapporti di produzione e le tutele che essi consentono, e al contrario assumono come dato il livello delle tutele e chiedono che si induca «il sistema produttivo a darsi gli assetti, le strutture finanziarie, gli obiettivi strategici che possono consentire la generazione di un valore aggiunto più consistente» per poter offrire a tutti un livello di tutela uniforme (e pari al massimo, si ha motivo di ritenere). Anche in questo caso, all’ombra delle ragioni ideali crescono le contraddizioni.

Infatti un tale sistema di tutele disincentiva quei lavoratori che si sentono già protetti dalla propria professionalità e non vorrebbero pagare il premio di un’implicita assicurazione; e non incentiva gli altri lavoratori a investire il proprio capitale umano. È contraddittorio pensare che aumentando il grado di livellamento si possa allo stesso tempo aumentare la ricchezza prodotta. Soprattutto è contraddittorio accettare l’iniquità presente e reale in nome di un’equità futura e improbabile: quanto tempo ci andrebbe perché i nuovi «assetti, strategie finanziarie, obiettivi strategici» consentano di assorbire prima tutto il sommerso e poi tutta la panoplia di strumenti surrettizi di flessibilità inventati per aggirare anatemi e tabù? «Se manca un progetto dietro le riforme del lavoro» è il titolo dato all’articolo di Alfredo Recanatesi.

Esso, più che ai progetti circostanziati di noi riformisti, è adatto alle obiezioni degli ecclesiastici intervenuti a quel dibattito. Marco Biagi cercò ancora una volta di argomentare che la sua ispirazione era ampia: in tutte le repliche, si legge lo sforzo di un «progetto» che fa della flessibilità uno strumento per far crescere reddito e diritti, non una parola d’ordine per licenziare. È questo spirito, che nell’intervento del governo non ha trovato attuazione, che bisogna recuperare, nella speranza che quel giorno la visione della dottrina sociale della Chiesa su imprese, tutele e mercato del lavoro sia quella di un Michael Novak, non certo la nostalgia di convenienza e scelte date a priori.

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