Torna Colbert con vizi e virtù

febbraio 13, 2011



Intervento pubblico

L’approfondita biografia scritta da d’Aubert offre una doppia lettura dell’uomo di potere: quella privata e le imitazioni

“Colbert è tornato”: quando nel settembre 2007 gli americani vedono il Governo salvare, sostanzialmente nazionalizzandole, banche, assicurazioni, fabbriche di automobili, basta quel nome ad esprimere lo sconcerto. Quando anche in Europa si susseguono interventi più o meno scoperti, non sempre e non da tutti il nome di Colbert viene usato come segnale di pericolo. Chi già si fida poco della mano invisibile, e ritiene che i mercati in generale e quelli finanziari in particolare debbano essere sorvegliati e tenuti a freno, vede nella crisi finanziaria la conferma dei propri pregiudizi. Di fronte alla paura – delle merci cinesi e della finanza americana – la speranza è riposta nel limitarne l’afflusso e nel sostenere l’economia reale con le politiche industriali: colbertismo non è più una brutta parola.

Nella caccia ai colpevoli, avidità, arroganza e consumismo finiscono sotto accusa; parsimonia, prudenza e risparmio sono rivalutate: Colbert diventa un esempio. Riconoscimenti meritati, per l’uomo e per la politica di cui è l’eroe eponimo? “Virtù usurpata”, per François d’Aubert, che così sottotitola la ponderosa biografia di Colbert, pubblicata da Perrin.

Dura 40 anni la vita pubblica di Jean Baptiste Colbert. Inizia nel 1643, con Mazzarino, presso cui è introdotto dal prozio Michel Particelli che aveva acquistato la carica di controllore generale della finanze per la somma astronomica di 800.000 lire. “Vi devo tutto, avrebbe detto il cardinale morente al giovane Luigi XIV, ma credo di sdebitarmi in qualche modo consegnandovi Colbert”. Del re sarà il principale collaboratore fino alla morte, nel 1683. Luigi avrà ancora 32 anni di regno davanti a sé.

D’Aubert scrive in realtà una doppia storia, quella della vita di Colbert e quella del giudizio che i posteri ne diedero. E’ un periodo cruciale per la Francia, dalla Fronda alla pace di Nimègue, in cui si costruisce lo stato nazione, la gloria del Re Sole, il fasto di Versailles. La storia della vita di Colbert, d’Aubert la percorre da un angolo inusuale, quello delle politiche e delle tecniche per reperire ed impiegare le risorse necessarie: e si fa leggere d’un fiato. Tuttavia, nel suo dichiarato proposito di far luce sulle parti che hanno goduto di “indulgenza storiografica” finisce per non concedere proprio nulla al relativismo storico. E’ vero che Colbert è ossessionato dall’idea del danaro che “si perdeva” pagando per le importazioni, ma il metallismo all’epoca era mainstream in Europa come lo fu il keynesismo nella metà del secolo scorso. E’ vero che ricorre alla bancarotta dei titoli di stato e della tosatura delle monete, ma erano considerate pratiche scorrette, non eccezionali. La vendita delle cariche e il nepotismo erano parte del sistema. Colbert non fu il solo ad usare le galere anche a scopi penitenziari, né era solo la Compagnie du Sénégal da lui fondata a lucrare sulla tratta degli schiavi. Colbert morì ricco, ma non scandalosamente ricco a paragone di Richelieu, di Mazzarino, di Fouquet. Invece non erano affatto comuni le cose positive che fece, la contabilità dello stato, l’equilibrio dei conti pubblici, certe innovazioni finanziarie: se quello fu il secolo d’oro per la Francia il merito va anche a chi quell’oro lo raccolse e lo impiegò.

La seconda storia è piuttosto una meta-storia. Colbert stesso aveva posto grande cura alla costruzione idealizzata della propria immagine; la sua Petite Académie suggeriva temi per le allegorie, come quella de L’Ordre retabli dans le finances della galleria degli specchi a Versailles; negli scritti che ha lasciato in quantità sterminata si trova materia per farne un simbolo disponibile ai propositi dei posteri. E’ Voltaire a trarlo dall’oblio in cui era caduto, facendone il protagonista di una storia riletta non più dall’angolo della perennità della monarchia ma della lenta elaborazione dello Stato ad opera di saggi amministratori. Necker pone la propria candidatura a Ministro delle Finanze facendo l’elogio di Colbert nel suo discorso all’ Académie; la sua descrizione di un Colbert “che non rifugge dall’imporre dei limiti alla libertà dei commerci quando il bene pubblico richiede questa eccezione” sembra un autoritratto. Nell’800 la borghesia imprenditrice, nella ricerca di figure che legittimino la sua crescita, scopre in Colbert il figlio di un commerciante, che avrebbe potuto far proprio l’”enrichissez-vous” dell’epoca. Nella III Repubblica, diventa “l’icona di una borghesia meritocratica, conquistatrice e riformista, e come tale meritevole dell’intervento multiforme dello Stato, […] l’incarnazione un po’ forzata della virtù repubblicana […] puro prodotto dell’ascensore sociale e vittima del pregiudizio nobiliare”.

Oggi Colbert e il colbertismo, in Francia, sono difesi dai grand commis dell’amministrazione, sono ammirati da capi di banche e aziende che furono pubbliche, sono presi ad esempio per la modernità di “ragionamenti perfettamente cartesiani, tecnocratici in modo premonitore”. “Virtù usurpata”? In ogni caso materia per interessanti riflessioni. Non solo in Francia.

Colbert: la vertu usurpée
di François d’Aubert
Perrin, Parigi 2010
pp. 488
22,67€

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