→ Iscriviti
→  gennaio 22, 2021


Estratto da “Fare profitti. Etica dell’impresa”, di Franco Debenedetti, Marsilio, 2021

È tornato di moda attribuire tutti i mali del mondo alla struttura delle imprese, tanto che si invoca un cambio di paradigma e uno stravolgimento della missione aziendale. Il nuovo saggio di Franco Debenedetti, edito da Marsilio, spiega perché queste critiche sono sbagliate

Il viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina mercoledì 18 settembre 2019, avesse preso la sua copia del «Financial Times», avrebbe strabuzzato gli occhi: a racchiuderla, una copertina giallo canarino recante un solo titolo, a caratteri cubitali, come l’ormai famoso Fate presto del «Sole 24 Ore», quando lo spread era a 575: Capitalism. Time for a reset.

Reset si traduce con ripristinare o con azzerare: per «ripristinare» il capitalismo – spiega sul retro una lettera del direttore Lionel Barber – bisogna «azzerare» la dottrina dello shareholder value, secondo cui la responsabilità sociale delle imprese, in particolare di quelle che hanno la forma di società per azioni, è la massimizzazione dei profitti. Questo principio è stato punto di riferimento, soprattutto nei paesi anglosassoni, per quasi mezzo secolo.

Certo, c’erano voci di dissenso, ma ora siamo a un dichiarato cambio di paradigma, che l’edizione fuori norma del «Financial Times» rende ufficiale.

Chi, nell’Italia dell’Iri prima e della Cdp oggi, per decenni ha letto il quotidiano rosa come la bibbia del libero mercato, la voce del mercato finanziario moderno nel paese del capitalismo delle scatole cinesi e delle partecipazioni incrociate, avrebbe ben di che strabuzzare gli occhi.

L’articolo del «Financial Times» riprendeva e amplificava la dichiarazione resa un mese prima dai 181 capi delle massime aziende americane alla Business Roundtable, che portava in calce, a renderla più solennemente impegnativa, le loro 181 firme autografe.

Questa a sua volta discendeva dal manifesto, redatto da Martin Lipton su richiesta del World Economic Forum, pubblicato nel 2016 e poi nell’edizione del manifesto di Davos del 2020. Che vi affermassero l’impegno a trattar bene i dipendenti, a non discriminare per colore della pelle o per preferenze sessuali, e che la soddisfazione dei loro clienti fosse in cima ai loro pensieri, non parve una novità sconvolgente.

La novità era la sottoscrizione di un nuovo paradigma di governo societario, che adotta i principi dello stakeholderism e degli investimenti Esg (Environmental Social Governance) rinnegando il principio che aveva tenuto banco almeno dal 1970, quando la pubblicazione sul «New York Times Magazine» di un articolo di Milton Friedman aveva reso popolare la sua dottrina: una e una sola è la responsabilità sociale dell’impresa, fare quanti più profitti possibile, purché, aggiunge, «nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia quelle incorporate nelle sue leggi, sia quelle dettate dai suoi costumi etici».

Una novità, quella del nuovo paradigma, non priva di contraddizioni. Infatti, attirando a Davos i capi delle massime aziende del mondo per catechizzarli e convertirli allo stakeholder capitalism, Klaus Schwab fa aumentare lo shareholder value del suo World Economic Forum.

E, a sua volta, se i catecumeni ivi convenuti adotteranno il nuovo verbo stakeholderista, sarà solo perché pensano che, in questo modo, o aumenterà lo shareholder value delle loro imprese, o diminuiranno i rischi a cui possono andare incontro (o semplicemente saranno più liberi dalle pretese degli shareholder). E anche la direzione del «Financial Times» deve aver pensato che attribuire alla massimizzazione dei profitti delle aziende la responsabilità delle diseguaglianze di redditi, della precarietà del lavoro, dei problemi ambientali, potesse essere il modo per conquistare nuovi lettori e inserzionisti massimizzando così i profitti. (Poi devono aver temuto di passare da bibbia del mercato a corano del socialismo e, ricordando la prima norma del marketing – non perdere i clienti che si hanno – il 7 ottobre 2019 pubblicavano un articolo a firma di Jesse Fried dal titolo inequivocabile: “Gli shareholder vengono sempre prima, ed è un bene che sia così”).

Insomma, nei club, o nei templi, del capitalismo è un susseguirsi di autodafé, comprensibili solo come riti scaramantici.

a sua «prima e principale responsabilità», come scrive Archie B. Carroll, «è di natura economica. […] l’impresa è l’unità base nella nostra società. Come tale ha la responsabilità di produrre beni e servizi che la società desidera e di venderglieli con profitto. Tutti gli altri ruoli dell’impresa sono basati su questo fondamentale assunto». La misura è lo shareholder value. Invece lo stakeholder value richiede di scegliere tra le varie constituency, in base a criteri arbitrari che sovente finiscono per essere dettati dalla politica.

Non restare in conformità ai «costumi etici», anche senza violare la legge scritta, può avere conseguenze molto gravi: un’azienda può perdere i clienti e i collaboratori più qualificati, quindi veder diminuire il suo shareholder value. C’è però anche un rovescio della medaglia: intercettare per primi il sentimento della gente, mettersi in sintonia con le loro speranze e le loro paure, può consentire di conquistare clienti e collaboratori, magari perfino di spuntare un prezzo migliore, tutto a vantaggio dello shareholder value. Perseguirlo può consentire di raggiungere obiettivi che sfuggono ai governi.

È il caso del cambiamento climatico e della decarbonizzazione dell’economia. La Tesla nel 2019 rischiava di fallire, un anno dopo la sua capitalizzazione in Borsa superava quella della Toyota: non per i suoi utili, ma perché, seguendo il principio «siliconvallico» del move fast and break things, ha trascinato l’elettrificazione delle auto, sicché oggi non c’è pubblicità di costruttore che non esibisca in prima fila i modelli elettrici.

In generale, sono le scelte degli investitori a decretare il successo delle imprese con credenziali Esg e le preferenze dei clienti quello dei prodotti sostenibili. Mentre i governi non riescono a mettersi d’accordo sul protocollo di Parigi.

Le riflessioni raccolte in questo libro nascono proprio da quella che a chi scrive sembra una contraddizione che la latitudine semantica del verbo reset consente: tra critica di quanto vada «rimesso a posto» in un paese capitalistico, o anche in tutto l’Occidente, e «azzerare» il modo di funzionare delle società per azioni.

Ci sono ragioni anche evoluzionistiche, sostiene Michael Jensen, per cui gli esseri umani devono simultaneamente esistere in due ordini, che Hayek chiama il micro e il macrocosmo. Applicare a entrambi il nome di società serve a poco ed è perlopiù fuorviante. Dobbiamo continuamente aggiustare le nostre vite, i nostri pensieri, le nostre emozioni, per vivere in diversi tipi di ordine secondo diverse regole. Bisogna considerare, oltre al sistema nel suo complesso, le strutture sottostanti, passando dalla società civile alla società per azioni, il mattoncino di Lego del capitalismo, cioè dai governi alle imprese, dalla macro alla microeconomia, dalle decisioni del regolatore ai comportamenti del regolato, dalla political economy alla corporate governance.

Il capitalismo, innanzitutto: che è sotto accusa. Non solo vengono disconosciuti i suoi più evidenti successi (Mariana Mazzucato), non solo viene condannato per il suo intrinseco modo di funzionare (Thomas Piketty): è rigged (Martin Wolf), è gone wild (John Mauldin), necessita di una cassetta degli attrezzi per ripararlo (Joseph Stiglitz), ha creato un nuovo materialismo (Greg Jaffe).

Non stupisce che accusarlo sia diventato, come si diceva una volta, un luogo comune, o come si dice oggi, nell’epoca dei social media, un contenuto virale. Quelle che si rivolgono alle grandi aziende di internet, più che accuse sono condanne in attesa di esecuzione; l’intera cultura degli algoritmi è vista con sospetto; contro robot e intelligenza artificiale si scatena il nuovo luddismo.

Eppure in poco più di un secolo la percentuale di persone che viveva in condizioni di estrema povertà è passata dall’85% al 4%; il 40% dei bambini moriva prima del quinto anno di età, oggi solo uno su 25; nel tempo della mia vita la popolazione del mondo è cresciuta più di tre volte e contemporaneamente il Pil pro capite è passato da circa 3 mila dollari a circa 15 mila.

Nel 1800 la schiavitù era legale quasi ovunque, oggi è (formalmente) illegale in tutto il mondo; le donne non votavano, oggi lo fanno ovunque si voti; infine, nel 1800 quasi nessuno viveva in una democrazia.

Per alcuni le difficoltà che incontra il capitalismo, invece che sfide da affrontare, sono segno di degenerazione: le diseguaglianze in primo luogo, che in alcune società raggiungono livelli difficili da giustificare; la dislocazione di attività, che ha interessato imprese e professionalità, soprattutto nelle industrie tradizionali; la finanziarizzazione dell’economia; una caduta del tasso di crescita della produttività. Sotto accusa è anche l’antitrust americano che, dopo la svolta di Robert Bork, ha consentito che crescessero monopoli nel paese che era stato modello di mercato concorrenziale.

La grande crisi finanziaria e le sue conseguenze hanno lasciato la sensazione che il sistema sia truccato, che ci sia una relazione diretta tra gli eccessi dei servizi finanziari e i disagi economici che i cittadini hanno dovuto sopportare.

Anche il decennio di interessi bassi che ne è seguito è andato a vantaggio della speculazione piuttosto che dei cittadini ordinari. Il modello capitalistico di produrre e di consumare – questo il verdetto – esaurisce le risorse del pianeta e lo sta distruggendo: ha creato le condizioni di un pericolo esistenziale a cui non si sa come porre rimedio. E poi la pandemia da Covid-19, ad acuire i problemi, compresa la diseguaglianza.

In passato le sirene del thatcherismo e del reaganismo avevano cantato che si sarebbe ripetuto quanto era avvenuto per le rivoluzioni tecnologiche e le globalizzazioni precedenti, che le imprese avrebbero risolto i problemi del mondo, assicurando crescita e diffondendo benessere.

Ora invece la politica si impadronisce dei problemi, ma non ce la fa a individuare le soluzioni, non riesce a redigere un programma, a riempire di contenuti le grandi questioni delle diseguaglianze, del welfare, della tecnologia.

Scaricare le colpe di tutto sul neoliberismo può andar bene per deviare le proteste e farle convergere su un costrutto retorico. Ma quanto a indicare soluzioni, il sistema è troppo complesso, sia per chi crede nella sua capacità di rispondere ai problemi, come è sempre stato finora, sia per chi vorrebbe abbatterlo, nonostante i disastri provocati da chi ci ha provato.

I governi impongono i tributi, intermediano una larga parte del prodotto, forniscono direttamente servizi essenziali; pubblica è la politica monetaria; la politica estera influenza scambi commerciali e investimenti; il potere legislativo può determinare i rapporti di concorrenza tra le aziende, i diritti generali di shareholder e stakeholder. Le società per azioni devono «entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi», ma è compito dello Stato garantire la libertà dei mercati e la concorrenza sul mercato di prodotti e servizi, e la contendibilità del controllo societario.

E siccome la concorrenza è, come dice Friedrich von Hayek, un processo di scoperta, in questo modo si pongono le condizioni per la crescita dell’innovazione.

Passando ora di livello, dalla società civile alla società per azioni: per quale motivo le cose dovrebbero andar meglio se creare la ricchezza della nazione non fosse responsabilità delle società per azioni? A tutte le scale, gli esperimenti per assegnarla, quella responsabilità, allo Stato hanno dato risultati che dissuadono dal riprovarci. Anche chi ha perso (o non ha mai avuto) fiducia nel capitalismo, deve riconoscere che la società per azioni a responsabilità limitata ha avuto un ruolo da protagonista per il successo delle economie di mercato: ha convogliato il risparmio verso gli investimenti e ha favorito la crescita dei paesi dove ha avuto origine e dai quali si è diffusa nel mondo.

Che cosa supporta la convinzione che i grandi problemi sistemici – della crescita, della distribuzione della ricchezza, della formazione, del welfare, e ora della cura dell’ambiente – abbiano origine proprio nelle società per azioni e poi si aggreghino a livello delle società in senso lato?

Ci deve essere, sostengono alcuni, una causa generale e strutturale se qualcosa è andato storto, se si è verificata una distonia tra il funzionamento delle imprese e quello del mondo che esse stesse hanno costruito, e pensano che questa sia l’obiettivo che esse perseguono. Per cui vorrebbero che le imprese cambiassero la loro funzione obiettivo; basterebbe questo, dicono, perché riprendessero il compito di creare innovazione e ricchezza, in modo virtuoso.

Era già accaduto: con la grande depressione e la conseguente crisi di fiducia nel capitalismo, si guardò alle grandi imprese per continuare a diffondere in tutta l’economia il corporativismo del New Deal, legittimandolo con la teoria della Corporate Social Responsibility (Csr). Ed è proprio per rimediare alle degenerazioni che ne derivarono nei decenni successivi che Milton Friedman riportò la responsabilità sociale dell’impresa alla sua funzione: fare quanti più profitti possibile.

Shareholder e stakeholder value sono diventati simboliche astrazioni, termini sintetici di visioni politiche e sociali contrapposte, anche in modo esasperato. Ma essi hanno un significato preciso all’interno di una teoria dell’impresa a forma societaria. Il fatto che questo costrutto giuridico sia presente in tutte le economie del mondo, mantenendo un’impressionante uniformità di caratteristiche e andando incontro fondamentalmente agli stessi problemi giuridici attraverso le varianti delle giurisdizioni nazionali, testimonia che è elemento imprescindibile dell’economia di mercato.

Le imprese entrano in numerosi rapporti contrattuali, con fornitori, dipendenti, clienti, anche terze parti quali le comunità locali, i beneficiari dell’ambiente naturale.
A far sì che l’impresa possa svolgere il ruolo di coordinamento agendo come controparte unica distinta dagli individui che la possiedono e che la gestiscono, così consentendo loro di impegnarsi insieme in progetti comuni, provvede la corporate governance.

Secondo la definizione che ne dà l’Ocse, essa è «il sistema con cui le imprese sono gestite e controllate; specifica la distribuzione dei diritti e delle responsabilità tra i vari partecipanti nella società, consiglio di amministrazione, manager, azionisti e altri titolari di diritti; precisa le regole e le procedure per prendere decisioni negli affari societari; fornisce la struttura con cui vengono stabiliti gli obiettivi dell’impresa e i mezzi per raggiungere questi obiettivi e per controllare l’efficienza».

Questo sistema si è andato evolvendo e raffinando per oltre un secolo, adeguandosi al mutamento delle tecnologie e dei mercati, quelli dove si scambiano beni e servizi e quelli dove si scambiano i diritti di proprietà.

Finché, con il saldarsi dei progressi delle tecnologie informatiche a quelli delle comunicazioni, siamo entrati nell’economia digitale. Una rivoluzione, la quarta, dopo quelle delle applicazioni industriali della macchina a vapore, dell’elettrificazione, dell’automazione e, delle precedenti, più rapidamente dilagante.

Questa rivoluzione, che quelli della nostra generazione hanno visto formarsi ed espandersi fino a interessare il vivere sociale in tutti i suoi aspetti, e la politica nel senso sia di relazioni tra Stati sia del governo negli Stati, è probabilmente la più formidabile rivoluzione che l’uomo abbia mai sperimentato. (E questo è solo l’inizio, se pensiamo alle applicazioni dell’intelligenza artificiale, ai quantum computer, all’Internet of Things). Lo è per la velocità con cui si è manifestata: un paio di decenni dalle prime applicazioni di internet alla connettività universale.

Essere disruptive è la caratteristica delle imprese del digitale, deliberatamente perseguita come chiave di successo. E pervicacemente denigrata da coloro che non riescono ad adattarvisi, fino a contestarne il modello di business.

Molte delle accuse mosse alle imprese Big Tech finiscono per essere rivolte al capitalismo in generale: l’aumento delle diseguaglianze, la tendenza al monopolio, l’evasione fiscale. E non senza qualche ragione, non fosse che per motivi statistici, dato che le società del digitale capitalizzano (a metà 2020) il 24,5% dell’indice S&P 500.

Dei 181 Ceo firmatari della famosa dichiarazione della Business Roundtable, la gran parte sono, direttamente o indirettamente, «digitali».

La pandemia da coronavirus, che dal dicembre 2019 si è propagata in tutto il mondo, potrebbe divenire un termine a quo si racconta la storia, forse come lo sono state le grandi guerre, certamente come lo sono state la grande depressione del 1929 e la grande recessione del 2007. Ha sconvolto le nostre vite, le nostre attività, le nostre relazioni, i nostri affetti. Ha devastato le attività economiche di tante imprese, che di questo libro sono le protagoniste.

È da loro, da quelle che avranno superato la crisi, e da quelle che dalla crisi nasceranno, che ci aspettiamo il ritorno alla normalità e la ripresa del percorso di crescita che lo renda possibile. Perché sono le imprese che hanno la responsabilità di produrre beni e servizi che la società desidera e di venderglieli con profitto.

→  gennaio 18, 2021


di Giuseppe Pennisi

“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio, è il nuovo libro dell’ingegnere Franco Debenedetti che dà spunti per una nuova linfa industriale che sembra persa nel nostro Paese. Un volume che il prof. Pennisi suggerisce di leggere insieme ad altri due scritti dagli economisti Ciocca e Zecchini, per completare un messaggio forte rivolto all’imprenditorialità italiana

Il nuovo saggio di Franco Debenedetti (“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio Editori, 2021, € 18) esce al momento giusto. In Italia si sta tentando di riprendere la via dello sviluppo che pare smarrita da vent’anni. Il documento che dovrebbe tracciarne la rotta (il Piano Nazionale di Rilancio e di Ripresa, Pnrr) è in ritardo; secondo economisti di varie “scuole” è lacunoso e carente.

Lo stesso Pnrr, già nella sua introduzione, spezza una lancia a favore del capitale e dell’investimento pubblico, dichiarandolo più socialmente efficiente di quello privato.

Spira, in generale, da qualche tempo un’aria poco favorevole all’imprenditoria privata: se ne è fatta portavoce a livello internazionale Mariana Mazzucato, docente all’Università di Essex, molto apprezzata del governo Conte (nonostante uno dei suoi ultimi libri sia stato “stroncato” su The Economist del 16-22 gennaio 2021). Questo vento è molto seguito da alcuni cenacoli intellettuali come il Forum delle Diseguaglianze composto da economisti e giuristi che hanno proposto di recente “nuove missioni strategiche per le imprese pubbliche”, in sintesi una nuova combinazione di Iri ed Efim. In effetti, la Cassa Depositi e Prestiti sta da qualche anno silenziosamente trasformando la propria finalità da quella di essere il depositario ed il custode del risparmio postale degli italiani (e soprattutto dei ceti a reddito medio-basso) in qualcosa che assomiglia ad una nuova Iri-Efim- Gepi, affiancata in questo compito da altre holding come Invitalia. Gli esempi potrebbero continuare.

In questo contesto, giunge come “un rompiscatole” ed una “voce fuori dal coro” Franco Debenedetti a rivendicare il ruolo dell’impresa ed a ricordare che il suo primo dovere – un dovere “etico” – consiste nel “fare profitti”. È una massima cardine di tutte le scuole economiche, anche di quella marxista- Ricordatevi il “compagni contadini, arricchitevi!”, slogan di Bucharin nel lontano 1925. Ma che spesso da qualche tempo chi professa di essere economista dimentica.

Franco Debenedetti non è un economista, ma un ingegnere che ha guidato e fondato importanti imprese industriali, spesso in settori innovativi. Dopo la sua carriera industriale ed imprenditoriale, si è posto al servizio del Paese in modo differente di quanto lo aveva fatto da imprenditore. È sceso in politica ed è stato senatore per tre legislature. Non nei banchi della destra o del centro ma in quelli della sinistra. Terminata questa non breve esperienza politica, presiede un think tank, collabora a quotidiani e riviste e, giovanissimo più di prima, scrive saggi in cui mette a disposizione degli altri la propria esperienza.

Il libro, di trecento pagine a stampa fitta (escludendo gli indici), si legge tutto di un fiato anche e proprio perché non è un libro di economia ma il frutto di una vita di lavoro, oltreché di studio e di riflessioni. È in cinque parti, ciascuna costituita da agili capitoletti. La prima parte è quella che più fa riferimento alla teoria economica. In essa si enuncia, prendendo il là da Milton Friedman, come “fare profitti” sia la prima, anzi l’unica responsabilità sociale dell’impresa e si passano in rassegna i “favorevoli” ed i “contrari” di questa ipotesi per poi illustrare come l’impresa nasce, cresce e funziona. La seconda parte analizza come l’obiettivo di massimizzazione del profitto debba e possa realizzarsi “nel rispetto delle regole fondamentali della società sia quelle incorporate nelle sue leggi sia quelle dettate nei suoi costumi etici”. Viene, quindi, tracciata una netta demarcazione tra il diritto/dovere dell’impresa e quello della politica che deve stabilire le regole ed assicurare che esse vengano osservate. La terza parte affronta il problema delle diseguaglianze, spesso indicate come conseguenza del “fare profitti”: circa quaranta pagine dense non di teoria ma di esempi dalla storia recente spiegano come un’impresa che massimizza i profitti è anche il miglior “ascensore sociale” come indicato che quasi il 70% delle persone considerate da Forbes come le più ricche del mondo hanno fondato e guidato la propria impresa.

La quarta parte riguarda l’impresa e le tecnologie. Solo un cenno alla «prima rivoluzione industriale» per introdurre come la società e le imprese cambiano nell’età della tecnologia dell’informazione e gli inquietanti interrogativi che essa pone sia a chi deve regolare (e vigilare) le imprese sia a chi intende crearle e condurle. Ancora più inquietanti quelli posti dal “fare profitti” dalla pandemia sia dal prender spunto da quest’ultima per un’avanzata dello Stato, e della mano pubblica nell’economia in generale.

Da un lato, ci sono i “profittatori”, come in tutte le guerra (quella in corso e contro un nemico sconosciuto, subdolo ed in continua mutazione). Da un altro, lo spirito imprenditoriale viene stimolato dalle infauste circostanze: si pensi al breve periodo in cui centri di ricerca, principalmente di impresse, hanno sviluppato e messo in produzione vaccini. La net economy e la pandemia stanno anche modificando i paradigmi d’organizzazione e conduzione imprenditoriale. Ma l’obiettivo e la finalità etica non cambiano: fare profitti.

Questo è un brevissimo sunto di un libro ricco in cui le trecento pagine, organizzate in venti capitoli scritti in stile più giornalistico che accademico, si leggono agevolmente e volentieri. Anche se il loro sottostante ha ragionamenti densi sulla base di esperienze e di studi.

Potrà contribuire a sconfiggere l’offensiva anti-impresa guidata da Mariana Mazzucato, dal Forum delle Diseguaglianze e da tanti altri in questo primo scorcio di 2021? Potrà soprattutto contribuire a forgiare una nuova migliore politica economica rispetto a quella senza bussola che pare da qualche tempo dominare l’Italia? Molto dipende da chi lo leggerà ed in quale contesto. Il saggio scritto in uno stile piacevole ed accessibile tale da essere una lettura attraente per quelle che un tempo venivano chiamate “persone colte” è chiaramente diretto a quello che veniva definito il “ceto dirigente”.

Meriterebbe di essere letto insieme a due libri recenti, ambedue pubblicati da Donzelli Editore, di autori che non possono essere definiti contigui alla destra: “Tornare alla crescita: perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare” di Pierluigi Ciocca e “La politica industriale nell’Italia dell’euro” di Salvatore Zecchini. Ciocca e Zecchini, a differenza di Debenedetti, non provengono dal mondo dell’imprese, ma da quello di grandi istituzioni economiche sia nazionali (Banca d’Italia) sia internazionali (Fondo monetario, Ocse) ed insegnamento universitario. I tre lavori si integrano e lanciano un forte messaggio: un Paese, tendenzialmente caratterizzato da lunghe fasi di stagnazione, ha avuto periodi di crescita nell’età giolittiana e dopo la Seconda guerra mondiale e può averne nell’Europa della moneta unica perché un diritto dell’economia semplice e trasparente, certezza delle regole ed apertura dei mercati hanno stimolato e stimolano l’imprenditorialità a svolgere al meglio i propri compiti e la propria missione.
Occorre chiedersi se è ciò che è avvenuto negli ultimi anni e se è alla base delle politiche pubbliche in gestazione.

Leggi la versione originale sul sito formiche,net

→  gennaio 12, 2021


di Alberto Mingardi

Dai vaccini alle piattaforme online: le imprese orientate al profitto hanno risposto “presente”

Le case farmaceutiche che hanno prodotto a tempo di record i vaccini, i fornitori di servizi digitali che ci hanno aiutato a lavorare da casa, le catene industriali che ci hanno permesso di continuare ad avere quello che ci serviva: tutti hanno agito secondo logiche di mercato e profitto. Quelle che molti dibattiti post pandemia vorrebbero «correggere» in nome del bene comune. Non è del tutto saggio.

Un osservatore ingenuo penserebbe che, da quando la Food and Drug Administration americana ha autorizzato i vaccini di Pfizer/BioNTech e Moderna, il corso della pandemia sia cambiato. Ora abbiamo un’arma, che può aiutarci a ridurre in modo importante diffusione e letalità. Se l’arma, finalmente, esiste, tutti gli sforzi dovrebbero essere concentrati su come portarla su quanti più campi di battaglia possibile.

Israele a parte, i Paesi occidentali sembrano avere tutti problemi con l’organizzazione di una grande campagna di vaccinazioni. C’è però anche un problema di obiettivi e di sensibilità. Che coi vaccini si debba fare presto è il corollario di una visione per la quale l’obiettivo è tornare quanto prima alla «normalità». Cioè a una situazione in cui le persone possono esprimere quelle domande che da mesi vengono, purtroppo, compresse. Il bisogno di socialità. I viaggi: non verso mete esotiche, ma semplicemente verso una città in un’altra regione. Uscire la sera. Andare a teatro o al cinema.

Lo stato delle cose
Purtroppo, negli scorsi mesi molti governi non sono riusciti a investire su iniziative volte, appunto, a garantire quanto più possibile la vita consueta delle persone (per esempio, tamponi rapidi e test di massa). E c’è anche chi pensa che alla normalità non si debba proprio tornare. Il World Economic Forum ha per esempio inaugurato una discussione su quello che il suo fondatore, Klaus Schwab, chiama «the great reset». Reset è parola con la quale tutti abbiamo familiarità informatica e allude a un azzeramento. Mettere un punto e andare a capo, tirare una riga. La sede e il promotore del dibattito sono bastati a molti per imbastire una polemica di sapore complottista.

Il punto di partenza di Schwab e i suoi rasenta l’ovvietà: la pandemia ha esposto problemi e punti deboli dei diversi Paesi, bisognerebbe cercare di imparare la lezione del 2020. A Davos però ci si concentra su lezioni che hanno ben poco a che fare con la gestione del contagio. Si parla semmai di cambiamenti che, adeguatamente assistiti dalle politiche pubbliche, realizzino un «capitalismo sostenibile». Non è solo questione di sensibilità ambientale, ma proprio di quello che Franco Debenedetti («Fare profitti», Marsilio, 2021) chiama il «mattonino di Lego del capitalismo»: l’impresa. L’idea che essa debba fare profitti a vantaggio dei suoi azionisti è considerata una sorta di minaccia: il profitto di alcuni può mettere a repentaglio il benessere di tutti. Per questa ragione vanno imposte alle aziende metriche diverse, che le allontanino dall’ossessione del breve termine e le si rendano pienamente «compatibili» col benessere sociale. Queste metriche coincidono con un aumento della libertà d’azione del management, a spese degli azionisti (i cui interessi vanno subordinati a una qualche idea di utilità sociale) e dei consumatori (le cui esigenze possono non essere esaudite, se considerate non «sostenibili»).

La pandemia è la grande occasione per fare questo passo, non perché il motivo del profitto abbia mostrato i suoi limiti: se ne potremo uscire, è in buona misura grazie ad imprese orientate al profitto (Big Pharma). Se milioni di ragazzi hanno potuto, in qualche modo, seguire delle lezioni, è grazie a imprese orientate al profitto (Microsoft, Zoom, Cisco). Se durante il confinamento abbiamo potuto continuare ad avere certi consumi, è stato grazie a chi, facendo il proprio interesse, ci ha portato a casa ciò che desideravamo. La pandemia è la grande occasione perché sempre le crisi concentrano potere nelle mani delle autorità pubbliche, e questa concentrazione di potere non deve andare sprecata. L’impressione, fastidiosa, è che le vaccinazioni lente e che non cambiano la convivenza con il virus finiscono per fare il gioco di chi propugna azzardati esperimenti di ingegneria sociale.

L’esperimento
Questi esperimenti coincidono con una riduzione dei consumi possibili per ciascuno di noi. Come scrive Andrea Miconi («Epidemie e controllo sociale», Manifestolibri, 2020), la rappresentazione dell’emergenza ha fatto perno sulla «colpevolizzazione del cittadino». Scelte e abitudini fra le più semplici sono diventate, nel discorso pubblico, «peccati» da evitare per allontanare il male. Moralizzazione dell’epidemia e ambizioni di riforma del sistema capitalistico scommettono che il Covid ci segnerà in profondità. La pandemia ci impoverisce, e quindi potremo permetterci meno viaggi, meno cene fuori, e di cambiare l’automobile più tardi di quanto desiderassimo. Probabilmente saremo orientati a risparmiare di più che in passato, come capita quasi sempre a coloro che hanno subito uno choc molto forte.

Le conseguenze
Ma una cosa è questa ragionevole previsione, altra pensare che la forza della legge e la retorica dell’emergenza possano «raddrizzare» il presunto legno storto dei bisogni umani. E’ vero che non c’erano i social ma, con l’eccezione della peste, i grandi eventi pandemici del passato non hanno segnato la memoria collettiva proprio perché la voglia di vivere è più forte. In Cina, durante la «settimana dorata» (che coincide con la celebrazione della fondazione del regime) di ottobre, si sono spostati circa 630 milioni di persone. Non l’hanno fatto perché glielo ha imposto il partito ma perché hanno approfittato, appena è stato loro possibile, della libertà dalle misure di contenimento. Spostarsi, viaggiare, vivere la propria socialità. I bisogni dei cinesi non sono cambiati, e nemmeno i nostri.

→  gennaio 7, 2021


di Dario Di Vico, 7 gennaio 2020

Un pamphlet pubblicato da Marsilio prende di mira Joe Biden, Papa Francesco e il «Financial Times». Franco Debenedetti: l’impresa genera benefici sociali solo se ripaga gli azionisti.

Se ne salvano pochi. Sotto le acuminate frecce di Franco Debenedetti e del suo Fare profitti, in uscita oggi dall’editore Marsilio, cadono uno dopo l’altro assoluti protagonisti del nostro tempo come Joe Biden e papa Francesco, prestigiose organizzazioni internazionali come la Business Roundtable e il forum di Davos, studiosi à la page come Branko Milanovic, un giornale bibbia del mercato come il «Financial Times» e non vengono risparmiati nemmeno mostri sacri del pensiero riformista come Anthony Atkinson e John Rawls. La loro colpa, il minimo comune denominatore che li porta alla condanna, è quella di fare rilevanti concessioni al populismo e allo statalismo, i due mali che affliggono l’economia contemporanea e che, se preesistevano largamente al virus, ora però si stanno servendo della pandemia per fare il pieno di potere e di consensi.

leggi il resto ›

→  maggio 5, 2017

The Euro and the Battle of Ideas
Brummermeier Markus K., James Harold, Landau Lean-Pierre

Princeton University Press, 2016
440 pagg

Idee e interessi.
“Non le idee, ma gli interessi materiali e morali governano direttamente i comportamenti degli uomini. Molto frequentemente però le ‘immagini del mondo’ che le ‘idee’ hanno prodotte hanno determinato, come se avessero azionato uno scambio, lungo quali binari la dinamica degli interessi avrebbe spinto le azioni degli uomini”. In questa famosa analogia di Max Weber, tutto dipende da dove ci si pone: se a valle dello scambio si parlerà di interessi, se a monte delle “immagini del mondo”, e quindi delle idee che le hanno prodotte.

leggi il resto ›

→  giugno 4, 2016


Fare industria con i soldi di tutti


di Antonio Polito, 31 marzo 2016

«Anche nelle maggiori ristrettezze, i denari del pubblico si trovano sempre, per impiegarli a sproposito». Alessandro Manzoni conosceva così bene il nostro carattere nazionale (tendiamo facilmente a dimenticare che il denaro pubblico è nostro), da meritarsi la citazione d’apertura nel nuovo libro di Franco Debenedetti, vera e propria biografia di un’idea (anzi, di «un’insana idea», come è definita nel sottotitolo). L’idea è quella della «politica industriale», e cioè di una «politica in cui l’attività industriale è svolta più o meno direttamente dal potere pubblico», che ha percorso la storia d’Italia da Giolitti a Renzi, e che ancora oggi resta popolare sia nel senso comune di molti italiani sia nella prassi di tanti politici. La convinzione insomma che tocchi allo Stato “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” della competizione economica (come nel titolo del volume in libreria da oggi per Marsilio).

Leggi il resto.


Il ministero dello sviluppo è da chiudere


di Alberto Mingardi, 4 aprile 2016

Dimesso un Papa se ne fa un altro: figurarsi un ministro. Uscita di scena Federica Guidi, l’interim a Renzi sarà breve, guai a restare senza un «ministro dello Sviluppo Economico».Ma davvero?
Se guardiamo ai tassi di crescita degli ultimi vent’anni, il «ministro dello Sviluppo» parrebbe la più comica delle figure. Lasciamo al lettore di passare in rassegna nome e cognome degli ultimi, per dire, cinque affittuari del dicastero. Tutti specialisti ferratissimi nella convocazione di tavoli di lavoro. Lo «sviluppo economico», però, è «non pervenuto» o poco ci manca.
Più che sostituire il ministro, allora, servirebbe un po’ di realismo: chiudiamo il ministero.

Leggi il resto.




Sviluppo economico: serve un ministero che distribuisce soltanto sussidi inutili?


di Francesco Giavazzi, 4 aprile 2016

Davvero serve un ministro per lo sviluppo economico? Una volta si chiamava ministro dell’industria. Il ruolo fu occupato da personaggi di grande autorevolezza, da Romano Prodi a Giuseppe Guarino. Era il fulcro della «politica industriale» del governo, il luogo dove si dirigeva, meglio ci si illudeva di dirigere, la strategia industriale del Paese. Una «idea insana» come l’ha ben definita Franco Debenedetti nel suo libro recente (Scegliere in vincitori, salvare i perdenti, Marsilio). Poi cambiò nome, ma le illusioni non vennero meno. «Diciamo chiaro e tondo che chi rifiuta il termine politica industriale è un disfattista», disse il primo ministro per lo sviluppo economico, Pier Luigi Bersani.

Leggi il resto.




Franco De Benedetti ci ricorda il giustizialismo, quando «il controllo di legalità diventa controllo di virtù e il pm un eroe e un educatore»


di Diego Gabutti, 7 aprile 2016

Non è per abbattere il capitalismo, né per correggerlo, ma nell’illusione d’essere il capitalismo vero, il solo equo e giusto, che la «politica industriale» italiana ha messo il mercato alla gogna per quasi un secolo, da Mussolini fino a tempi recenti (anzi fino a oggi, con tentacoli che già frugano nel prossimo futuro). Fenomeno globale, l’«idea insana» che la politica, meglio del mercato, meglio cioè delle persone che interagiscono tra loro esplorando tutte le possibili strade della produzione, della creatività e della convivenza, possa organizzare l’economia della nazione attraverso un sistema «arzigogolato» di premi e punizioni è un’idea che ha avuto successo soprattutto in Italia, dove a dispetto delle disgrazie che ci ha tirato addosso, dal debito pubblico alle culture del cartellino da timbrare in mutande, è diventata senso comune.

Leggi il resto.




Franco Debenedetti: la politica industriale è la rovina dell’Italia


di Francesco Cancellato, 8 aprile 2016

«La politica industriale? Un’idea insana». A dirlo, e a scriverlo in un libro appena uscito intitolato “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» (Marsilio) è Franco Debenedetti, uno che ne sa qualcosa. Dall’azienda di famiglia, alla Gilardini, alla Fiat, all’Olivetti, alla Sasib; poi senatore per il Pds e l’Ulivo dal 1994 e il 2006, autore di numerose pubblicazioni su temi economici e politici, Debenedetti è uno che ne ha viste parecchie. E nel suo libro, ne ha per tutti. Per i partiti della prima repubblica e per la loro idea di «capitalismo delle partecipazioni statali». Per la stagione delle privatizzazioni degli anni ’90, e per quelle aziende «che non erano private, anche se privatizzate», come Telecom. Soprattutto, per quel che accade oggi e per il governo Renzi «che in realtà non vuole privatizzare un bel nulla». In sintesi, per la caratteristica tutta italiana di pensare all’economia come un affare di Stato, quella che causa guai come quello che ha coinvolto il ministro Guidi: «Se il governo ha dei poteri d’intervento molto pesanti sul modo di condurre business, ogni cosa può diventare scivolosa», dice a Linkiesta.

Leggi il resto.




Esiste una politica industriale?


di Giuseppe Pennisi, 10 aprile 2016

Per pura coincidenza temporale, il saggio di Franco Debenedetti (Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, pp. 335 €18) esce proprio mentre, da un lato, le cronache politiche e giudiziarie trattano di episodi (veri e presunti) di intervento pubblico particolaristico nella politica industriale e, da un altro, del Documento di Economia e Finanza (DEF) e del Programma Nazionale di Riforma (PNR) impongono a Governo e Parlamento di porsi la domanda profonda e inquietante nella copertina del volume: è “insana” l’idea stessa di politica industriale?

Leggi il resto.




Stato padrone e politica industriale


di Marco Panara, 11 aprile 2016

Lo Stato padrone non è più la soluzione, e secondo alcuni forse non avrebbe mai dovuto esserlo. Anche se viene da chiedersi se lasciando fare solo ai privati avremmo avuto le autostrade e le linee ad alta velocità, l’Eni, una produzione siderurgica in grado di sostenere l’industria metalmeccanica, una non marginale presenza nell’aeronautica, nella difesa e nello spazio.

Leggi il resto.




Debenedetti o i miti rudimentali dell’inesistente uomo economico


di Giorgio Meletti, 20 aprile 2016

Franco Debenedetti è nato nel 1933, come l’Iri. Dopo 83 anni poliedrici – figlio di un industriale, ingegnere nucleare, manager nelle aziende di famiglia e non solo, senatore dell’Ulivo – scrive un’appassionata invettiva contro il gemello putativo, l’Iri appunto, che incarna “l’insana idea della politica industriale”.

Leggi il resto.




L’appassionata e documentata cavalcata di una vita, di Franco Debenedetti, contro il suo mortale nemico: la politica industriale


di Riccardo Ruggieri, 22 aprile 2016

«Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» è un libro di Franco Debenedetti (complimenti a Marsilio per averlo pubblicato). Essendo Franco amico da sempre mi è vietato recensirlo (l’ha già fatto su questo giornale, da par suo, Diego Gabutti) ma parlarvi di lui e del suo libro posso, visto che mi cita pure. Immagino che questo, fra i molti, sia il libro della vita, il taglio e la struttura del racconto sono tipicamente anglosassoni, ma i fondamentali dell’autore sono svizzeri tedeschi (ha studiato a Lucerna), di più, Franco appartiene alla prima covata di ingegneri del Politecnico di Torino a specializzazione elettronica, ingegneristico è il suo rigore.

Leggi il resto.




Politica industriale, l’insana idea dello Stato padrone


di Nicola Porro, 24 aprile 2016

Una delle idee ricorrenti di chi ci governa e caratterizza il pensiero diffuso di chi viene governato, è che in Italia manchi una politica industriale.
In quanti salotti, trasmissioni televisive o sedute da bar avete sentito questo binomio magico? Politica industriale. Ecco, se in un aspetto si può dire che Gramsci abbia vinto è quello di aver sostituito un’egemonia culturale borghese (tutta da dimostrare) con quella collettivistica.

Leggi il resto.




Stato imprenditore o mercato, una questione da Unione Europea


di Antonio Galdo, 26 aprile 2016

La politica industriale ha quasi un secolo di vita, in Italia risale al 1930, e da allora non si è mai spento il fuoco della dicotomia Stato-mercato, mano pubblica e mano privata, a proposito dell’economia da sviluppare nel Paese. Sicuramente fu il fascismo, come ricorda nel suo libro “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” (edizioni Marsilio) Franco Debenedetti, a introdurre l’idea dello Stato imprenditore.

Leggi il resto.




Quella pia illusione chiamata politica industriale.


di Gemma Mantovani, 29 aprile 2016

Nostra Signora la Politica Industriale: ce la immaginiamo un po’ come una di quelle madonne barocche portate in processione sulle spalle dai nostri politici sudati ed ansimanti, una “Madonna del petrolio” che porta addosso un gran numero di monili e gioielli che i fedeli ringraziano con ex voto, a testimonianza di una grazia esaudita.
È questa l’immagine della politica industriale che ci ha evocato il bellissimo libro di Franco Debenedetti Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio, pp. 336, euro 18).

Leggi il resto.




Gli indecisi della mano (in)visibile


di Giorgio Barba Navaretti, 8 maggio 2016

«La capacità del mercato di autoregolarsi sembra ancora meritevole di fiducia», anche nei misteriosi e nuovi scenari del mondo digitale, perché la tecnologia, «dacché c’è storia» ha sempre «rimescolato le carte per nuove mani in giochi nuovi». La domanda ultima e ovvia del liberista, che si chiede «da noi quanto ha pesato la prevalenza/presenza dello Stato in economia nel limitare orizzonti, frenare entusiasmi, cercare convenienze, ergere difese?» ha però una risposta inattesa, tutt’altro che banale: «A mancare paradossalmente è proprio la fiducia nello Stato, nella sua capacità di garantire che il mercato funzioni correttamente, che a tutti sia assicurato accedervi e a nessuno precluso dal permanere di posizioni di rendita».
In questi estratti dal nuovo libro di Franco Debenedetti c’è forse la sintesi migliore della complessità del suo pensiero.

Leggi il resto.




Di cosa parliamo quando parliamo di politica industriale. Gutgeld su banda larga, CdP, liberalizzazioni e “un’insana idea”


di Marco Valerio Lo Prete, 11 maggio

“Nella storia d’Italia, la politica industriale non è stata sempre e comunque ‘un’insana idea’, ma certo oggi deve diventare innanzitutto ‘una politica per l’industria, che favorisca l’insieme delle imprese e l’insieme delle produzioni, cioè le condizioni del fare impresa’”. Con queste due diverse citazioni del libro “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, Yoram Gutgeld, in una conversazione con il Foglio, segna prima la distanza maggiore e subito dopo la principale affinità di vedute con Franco Debenedetti, l’autore del saggio appena pubblicato da Marsilio.

Leggi il resto.




Il virus dirigista delle classi dirigenti italiane, capitalisti inclusi


di Stefano Cingolani, 11 maggio

Il guaio dell’economia italiana è che i privati non si sono dimostrati molto migliori dello stato. Il libro lo racconta in modo
chiaro e sono contento che Franco Debenedetti lo abbia messo in rilievo”. Francesco Giavazzi, economista ed editorialista del Corriere della Sera, risponde da Chicago dove insegna per tutto quest’anno accademico alla richiesta di commentare l’“insana idea della politica industriale”, uno strumento che il professore, autore insieme al collega di Harvard Alberto Alesina di un pamphlet molto efficace e di successo come “Il liberismo è di sinistra”, ha sempre criticato a fondo. A suo avviso la vera anomalia italiana rispetto ad altri paesi europei nei quali pure lo stato interviene direttamente o indirettamente, per lo più con esiti contraddittori se non negativi (la Francia colbertista, la Germania consociativa, la Gran Bretagna laburista prima della svolta thatcheriana), è proprio la debolezza del capitalismo privato.

Leggi il resto.




Ci furono privilegi e distorsioni, vero. Ma prima del 1969 anche sviluppo


di Guido Pescosolido, 11 maggio 2016

C’è nello sviluppo economico italiano dall’Unità a oggi, e in particolare nella sua industrializzazione e deindustrializzazione, qualcosa di stupefacente e di grandioso, nel bene e nel male, nell’alternanza di successi e insuccessi, nella crescita e nella decrescita.

Leggi il resto.




Debenedetti: “Politiche industriali il peccato originale dell’Italia”


di Martina Zambin, 11 maggio 2016

Acuminato, a tratti quasi teso ma sempre cavalleresco. E soprattutto avvincente. Questa l’istantanea del duello intellettuale andato in scena martedì sera all’Ateneo Veneto fra Franco Debenedetti, politico ed economista, autore nel recente saggio Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea della politica industriale (Marsilio), e Paolo Baratta, presidente della Biennale, già Ministro delle partecipazioni statali, ministro dell’Industria, dei Lavori pubblici e dell’Ambiente. A moderare l’incontro il direttore del Corriere del Veneto Alessandro Russello, che ha pungolato sia Debenedetti chiedendogli il perché di un titolo tanto particolare, sia Baratta che ha difeso appassionatamente il proprio rifiuto nell’utilizzare proprio la definizione scelta dall’amico Debenedetti «politiche industriali».

Leggi il resto.




Vincitori e perdenti. La politica industriale secondo Debenedetti


di E.T., 11 maggio 2016

“Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”. È il titolo provocatorio del libro dell’ingegner Franco Debenedetti (Marsilio edizioni) presentato ieri all’Ateneo. Con esso, l’ingegner Debenedetti, dal 1978 al ’92 amministratore delegato dell’Olivetti e poi senatore per tre legislature mette sotto accusa il sistema della politica industriale del nostro Paese, in particolare dal dopoguerra ad oggi, a forte impronta statalista.

Leggi il resto.




Lo Stato leggero di Franco Debenedetti


di Alessandro Barbera, 23 maggio 2016

Se fossi un Millennial e mi trovassi in libreria a sfogliare Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio, euro 18 pp. 336), sarei probabilmente tentato da altro. Alzi la mano chi conosce, fra i nati dopo i Novanta, qualcuno in grado di raccontare cosa fossero l’Iri e la politica industriale. Oggi Facebook, Linkedln e Twitter hanno trent’anni in tre e capitalizzano 850 miliardi di dollari. L’Ilva di anni ne ha più di cinquanta, è ancora una delle più grandi acciaierie d’Europa eppure non vale più del prezzo pagato da Zuckerberg per comprarsi Instagram. Invece gli ottantatré anni di Franco Debenedetti sono senza prezzo: ingegnere, dipendente delle aziende di famiglia, manager Fiat, amministratore delegato di Olivetti e Sasib, Senatore della Repubblica, presidente dell’Istituto Bruno Leoni.

Leggi il resto.




Tra luci e ombre c’era una volta la politica industriale


di Marco Panara, 24 maggio 2016

In qualche modo l’Italia è ancora una potenza industriale e, se ci si guarda indietro, c’è da esserne un po’ stupiti scorrendo la lista interminabile degli errori e dei difetti, degli opportunismi e degli ideologismi. La storia dell’industria italiana nell’ultimo secolo è una matassa ingarbugliata che si può in qualche modo dipanare scegliendo uno dei tanti fili. Franco Debenedetti, ingegnere per formazione, manager per professione, liberale e uomo di sinistra, ha scelto la politica industriale. Una chiave potente. La sua posizione dichiarata nel saggio “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” ( Marsilio ) è che la politica industriale è una “insana idea”, non deve essere lo Stato a scegliere i vincitori e i perdenti, quello è un compito del mercato, e tanto meno lo Stato deve farsi imprenditore. Ma Debenedetti, che definisce l’industria pubblica «una metà del cielo» non risparmia neanche l’altra metà, quella privata: «Nostra peculiarità è l’inclinazione per incroci e intrecci tra i diversi potentati economici, la riluttanza ad adottare le forme di governance prevalenti altrove», scrive.

Leggi il resto.




I veri nemici della politica industriale


di Gianfranco Fabi, 6 giugno 2016

“Anche nelle maggiori strettezze i denari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito”. È una
citazione del XXVIII capitolo dei Promessi sposi che occupa la prima pagina del libro che Franco Debenedetti,
imprenditore, senatore, ora presidente dell’Istituto Bruno Leoni, ha dedicato alla politica industriale. Una
citazione che sintetizza nella maniera più efficace la parabola dell’intervento dello Stato nell’economia negli
ultimi ottant’anni. “Siamo quasi coetanei”, afferma subito Debenedetti: “Lei, la politica industriale, del 1930, io
del 1933″, e l’autore fa subito capire di essere molto più in forma, nonostante gli ottant’anni e passa, di quella
vecchietta che conduce una vita di stenti, spesso evocata, ma sempre meno efficace, anzi molto spesso dannosa.
In questo libro si ripercorrono quindi le vicende che hanno accompagnato l’economia italiana soprattutto
nell’ottica dell’intervento dello Stato e della sua pretesa di indirizzare, sostenere, premiare settori particolari
dell’economia ritenuti strategici per le più varie ragioni, con in primo piano comunque quella di difendere
l’occupazione ed evitare i licenziamenti.

Leggi il resto.


Più industria meno politica


di Dario Pregnolato, 8 giugno 2016

Industria e politica. Sono i due percorsi di Franco Debenedetti, imprenditore e manager, politico ed editorialista. «Un vasto curriculum semovente», l’ha definito Giuliano Ferrara. Debenedetti, 83 anni, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, è stato per 35 anni figura di spicco del mondo industriale. Laureato nel 1956 in Ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino, Debenedetti esordisce nell’azienda di famiglia fondata dal padre Rodolfo, la Compagnia Italiana tubi Metallici Flessibili, che diventerà la Gilardini. Poi la cavalcata nelle grandi multinazionali: la Fiat, dopo l’uscita di suo fratello Carlo, e la Olivetti di Adriano.

Leggi il resto.


Stato moderno, statalismo, economia di mercato


di Agostino Carrino, luglio 2016

Non c’è bisogno di condividere tutto l’impianto morale di questo libro o la filosofia economica liberista che lo sostiene – Debenedetti è non a caso Presidente dell’Istituto Bruno Leoni – per apprezzarne la bontà e, soprattutto, l’utilità ai fini di una riflessione più approfondita sulle vicende italiane, politiche ed economiche, specialmente a partire dal dopoguerra fino ad oggi.
Per troppo tempo le posizioni ideali cui Debenedetti si richiama sono state non solo e non tanto minoritarie, ma, di fatto, semplicemente considerate quelle perdenti rispetto al progressivo e fulgido andamento della storia, dominata dalle certezze di un pensiero che, legato con le masse, avrebbe aperto i cancelli di un progresso senza fine.

Leggi il resto.


Debenedetti, un liberista nella città statalista


di Marco Demarco, 06 luglio 2016

Ha scritto un libro contro l’«insana idea» della politica industriale, intesa sia come prassi sia come ideologia («Scegliere i vincitori, salvare i perdenti», Marsilio editore). E oggi Franco Debenedetti ha anche l’ardire di venire a presentarlo a Napoli. L’appuntamento è alle 18 a Palazzo Partanna con Ambrogio Prezioso, Antonio Bassolino, Paolo Cirino Pomicino e Antonio D’Amato. Perché l’ardire? Perché pure essendo Napoli la città di Croce e del pensiero liberale, qui di liberismo economico se n’è sempre masticato molto poco. E quasi mai in pubblico: sarebbe un po’ come professarsi juventini in curva B al San Paolo.

Leggi il resto.


Aiuto, all’Antitrust c’è Debenedetti


dalla redazione, 06 luglio 2016

Nella prestigiosa sede romana dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per tutti Antitrust, in genere si presentano pubblicazioni istituzionali. Stavolta invece l’Authority guidata da Giuseppe Pitruzzella ha deciso di ospitare la presentazione dell’ultimo volume di Franco Debenedetti, ex parlamentare e soprattutto fratello di Carlo De Benedetti (staccato, perché gli piace così), numero uno del gruppo Espresso-Repubblica: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti è il titolo del volume edito da Marsilio.

Leggi il resto.


Stato o mercato? Contano le regole


di Simona Brandolini, 07 luglio 2016

Metti un liberista dichiarato, un comunista, un democristiano e due industriali intorno allo stesso tavolo. Tre su quattro diranno, in modi diversi e punzecchiandosi, che serve alla fine “più Stato e più mercato”. E due su quattro non lesineranno critiche al Presidente del Consiglio. A Palazzo Partanna, sede dell’Unione Industriali, accolto dal Presidente Ambrogio Prezioso, Franco Debenedetti presenta il suo “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, con Antonio Bassolino, Paolo Cirino Pomicino e Antonio D’Amato, moderati da Marco Demarco.

Leggi il resto.


Debenedetti: la politica industriale non serve lo dimostrano i fallimenti dei gruppi pubblici


di Sergio Governale, 7 luglio 2016

Mps è il tipico esempio dei mali italiani, in cui il legame tra politica e imprese in questo caso una banca ha finito per produrre danni al sistema economico, come scarsa competitività e maggiori oneri a carico dei contribuenti. Così Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, che ieri a Napoli ha presentato all’Unione industriali il libro «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti».

Leggi il resto.