→ Iscriviti
→  dicembre 23, 2014


Caro Direttore,
spesso anch’io, come Fubini, ho sostenuto la tesi che occorrerebbe “il vaccino dei privati nelle aziende”: in Senato negli anni “sprecati” dell’Ulivo; e poi in quelli ( sprecati anch’essi?) in cui nel Cda di Iride, l’odierna Iren, cercando di far prevalere i propositi liberalizzatori del sindaco di Torino sull’arcigna difesa della proprietà municipale del sindaco di Genova; e poi ancora in occasione dello sciagurato referendum sull’acqua. Gli obiettivi dichiarati erano efficienza e apertura al mercato, ma i ricordi di Tangentopoli erano troppo vivi per non vedere nella separazione dei ruoli il pubblico a decidere e verificare, il privato ad eseguire anche un mezzo per levare spazio alla corruzione.

leggi il resto ›

→  dicembre 3, 2014


diFederico Rampini

L’Europarlamentare Andreas Schwab ora sa cosa bisogna aspettarsi per avere attaccato Google. È al centro di uno scandalo, almeno sui media Usa. La classe politica americana lo sta accusando di conflitto d’interessi. L’eurodeputato tedesco Schwab, cristiano- democratico vicino ad Angela Merkel, nonché firmatario della risoluzione parlamentare per smantellare Google, è anche consigliere di uno studio legale che difende gli editori anti-Google. Da che pulpito viene la lezione sul conflitto d’interessi? Gli Stati Uniti hanno abbassato la guardia su quel fronte, dopo la sentenza della Corte suprema che liberalizza i finanziamenti alle campagne elettorali: da allora i big del capitalismo americano non hanno più limiti nelle donazioni ai candidati. Gli stessi parlamentari americani che attaccano Schwab, possono avere ricevuto fondi da Google, mascherati nelle scatole opache dei Super-Pac (political action commette). Ma tant’è: a’ la guerre comme a’ la guerre. Tutti i colpi sono permessi, nel conflitto che oppone l’Unione europea a Google. È dai tempi dell’azione antitrust promossa da Mario Monti contro Microsoft che non si assisteva ad uno scontro così duro su un colosso dell’hi- tech americano. A Washington c’è chi minaccia ritorsioni commerciali, si parla di far saltare il negoziato sulla liberalizzazione degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico, per reagire alla presunta “aggressione” contro Google.

L’offensiva europea ha diversi aspetti. L’europarlamento ha approvato la mozione Schwab che invoca uno “spezzatino”, lo smembramento di un colosso divenuto troppo potente: ma si tratta di una risoluzione che non ha effetti operativi, né conseguenze immediate. Il voto dell’europarlamento forse incoraggerà altre offensive europee, portate avanti da protagonisti diversi. La Commissione di Bruxelles può rilanciare l’azione antitrust. La Corte di Giustizia ha già obbligato Google a garantire il “diritto all’oblìo” per proteggere la privacy dei cittadini europei che vogliono cancellare notizie diffamatorie dal motore di ricerca. C’è la battaglia sulla webtax. Infine c’è il dibattito sullo spionaggio digitale, scatenato dalle rivelazioni di Edward Snowden, e le contromisure che alcuni governi (Germania in testa) hanno allo studio: anche questo riguarda Google poiché Snowden ha dimostrato il collaborazionismo dell’azienda digitale con la National Security Agency. Che cosa può rischiare Google? Per quanto riguarda eventuali sanzioni antitrust, i precedenti vanno dal miliardo di euro di multa contro Intel ai 3 miliardi di dollari di sanzioni “a rate” su Microsoft. I legali di Eric Schmidt, presidente di Google, temono di poter arrivare fino a 6 miliardi di dollari di sanzioni, oppure il 10% del fatturato globale, se Bruxelles optasse per la linea dura. Dettaglio interessante: tra le “parti lese” che si sono appellate all’antitrust europeo ci sono i concorrenti americani di Google, come Microsoft e Yelp. Convinti evidentemente che sia più facile castigare le prepotenze di Google a Bruxelles anziché a Washington.

Perché l’antitrust europeo può decidere di intervenire contro Google, laddove l’antitrust americano non ne ravvisa la ragione? Le spiegazioni sono tante, la più semplice è questa: il potere monopolistico di Google è effettivamente più accentuato sul mercato euro- peo. Il motore di ricerca creato da Larry Page e Sergey Brin ha quasi il 90% di quota di mercato sul Vecchio continente contro il 68% negli Stati Uniti. Un’altra spiegazione chiama in causa il nazionalismo economico. L’Europa ha una presenza marginale nell’economia digitale. I Padroni della Rete sono tutti americani, nella Silicon Valley californiana o nella sua propaggine settentrionale di Seattle. Les Gafas , come li chiamano i francesi che hanno coniato l’acronimo dalle iniziali di Google Apple Facebook Amazon. L’Europa si sente colonizzata, l’America è la colonizzatrice. Gli approcci sono diametralmente opposti. Il magazine The New Yorker constata la recente alluvione di libri di management scritti da dirigenti di Google: sono idolatrati qui negli Stati Uniti come i nuovi guru del management, i profeti da ascoltare per avere successo. Ho raccontato su queste colonne la mia esperienza ad una presentazione newyorchese del best-seller di Eric Schmidt. La folla di giovani accorsa ad ascoltarlo non era critica, tantomeno ostile: il sogno di un ventenne americano è lavorare per Google (subito dopo Apple). Politicamente questi colossi sono intoccabili. Il Congresso di Washington ha sì promosso un’inchiesta sulla maxielusione fiscale di Google, Apple & C., ma le denunce non hanno avuto un seguito concreto. I repubblicani per definizione stanno coi capitalisti e contro le tasse. I democratici sono destinatari di generosi finanziamenti, la Silicon Valley ha il cuore che batte a sinistra.

Anche in Europa c’è chi prende le distanze dalla “Googlefobia”. Il settimanale The Economist ha dedicato l’ultima inchiesta di copertina ad un’appassionata difesa di Google. Gli argomenti sono quelli classici del neoliberismo: lasciate fare il mercato, ci penserà lui. The Economist ricorda che nessun gigante hi-tech è mai sopravvissuto per più di un ciclo d’innovazioni: gli ex-monopolisti Ibm e Microsoft sono ridotti a campare su nicchie di mercato. Conclusione: gli europei farebbero meglio a creare le condizioni per avere una loro Silicon Valley, un ambiente favorevole all’innovazione e alla crescita di giganti tecnologici, invece di attaccare i successi altrui. Ma l’argomentazione neoliberista ha delle inegnuità. Dimentica il ruolo decisivo dello Stato, proprio qui in America, nel favorire i “campioni nazionali”: è la tesi dimostrata dalla economista Mariana Mazzuccato nella sua celebre ricerca sulle origini pubbliche dell’innovazione (da Internet agli smartphone).

C’è poi la battaglia per la tutela della privacy degli utenti, e delle royalty di chi crea contenuti. Anche questa è più avanzata nell’Unione europea. La spiegazione è semplice: negli Stati Uniti un trentennio di egemonia neoliberista ha cancellato molte conquiste dei consumatori. L’antitrust Usa ha le unghie spuntate da molte Amministrazioni repubblicane. Il consumerismo nacque qui negli anni Sessanta con le battaglie di Ralph Nader, ma da allora i rapporti di forza si sono rovesciati a favore del Big Business. E oggi non c’è nulla di più Big dei Padroni della Rete, Google in testa.

→  dicembre 1, 2014


di Roberto Mania

C’è un “piano B” per l’Ilva. Il governo è pronto a chiedere l’amministrazione straordinaria per il gruppo siderurgico. Sostanzialmente dichiararne il fallimento e applicare la legge Marzano, il nostro “Chapter 11″, riservato ai grandi gruppi con più di 500 addetti e oltre 300 milioni di debiti. Un default pilotato, insomma. Un decreto legge ad hoc potrebbe essere varato nei prossimi giorni, o addirittura questa sera visto che è stata convocata una riunione del Consiglio dei ministri. I tempi saranno comunque strettissimi. L’Ilva, dopo che le sono arrivati i 125 milioni della seconda rata del prestito bancario, ha i soldi per pagare gli stipendi dei suoi 11 mila dipendenti di dicembre, la tredicesima e il rateo del premio di produzione. Niente di più. Mentre ci sono 350 milioni di debiti scaduti con i fornitori e 35 miliardi di richieste per danni ambientali, sotto varie forme, da parte della comunità tarantina.

Nessuno in queste condizioni comprerà mai la società. Non gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, il più grande gruppo europeo dell’acciaio, alleati con Marcegaglia; non l’italiano Arvedi che in ogni caso ha chiesto l’aiuto finanziario del Fondo strategico italiano, braccio industriale della Cassa depositi e prestiti, controllata dal ministero dell’Economia con la partecipazione delle Fondazioni di origine bancaria. Sia Mittal sia Arvedi, infatti, hanno presentato offerte considerate inaccettabili dal governo. Ma in particolare gli anglo-indiani hanno posto paletti insormontabili dal punto di vista economico e politico. Così non ci sarebbero garanzie sul futuro dell’impianto. “Non si svende la più grande acciaieria d’Europa”, spiegano a Palazzo Chigi. La produzione dell’acciaio resta strategica se si vuole rilanciare l’attività industriale crollata del 25 per cento in questi lunghi anni di recessione. Da qui il “piano B” del governo.

Giovedì scorso si sono riuniti a Palazzo Chigi il premier, Matteo Renzi, il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e il commissario governativo dell’Ilva, Piero Gnudi. Ne è emersa la convinzione che senza il passaggio all’amministrazione straordinaria la questione Ilva sia destinata a finire in un vicolo cieco. Con il rischio che prenda forma uno scenario sociale esplosivo, per le ricadute dirette su Taranto e gli altri siti produttivi (Novi Ligure e Cornigliano) e indirette sulle migliaia di piccole aziende fornitrici. Non per nulla ieri sono arrivati i commenti positivi dei sindacati all’ipotesi dell’amministrazione straordinaria.

D’altra parte né Mittal, né tantomeno i lombardi di Arvedi, significativamente indebitati, hanno indicato nell’offerta una cifra per rilevare la società. Questo è il punto. L’Ilva continua a perdere intorno ai 25 milioni al mese (ne perdeva quasi 70 prima dell’arrivo di Gnudi che ha cambiato tutta la prima linea di comando), nel 2012 e 2013 ha perso un miliardo l’anno, ha due terzi dello stabilimento di Taranto sotto sequestro, non ha praticamente le risorse per fare la manutenzione, e soprattutto deve rispettare i vincoli posti dal piano di risanamento ambientale che complessivamente richiedono un esborso di 1,8 miliardi di euro. Così i grandi acciaieri europei scommettono sul tracollo dell’Ilva, perché ci sarebbe un concorrente in meno e quote da spartirsi, mentre sui mercati globali avanzano i produttori asiatici, russi e brasiliani. Anche questa partita si sta giocando intorno alla crisi dell’ex Italsider. Eppure a Taranto si potrebbe ancora produrre acciaio di qualità in condizioni redditizie purché liberi del “fardello” del passato. L’amministrazione straordinaria servirebbe a questo, a non cedere l’azienda, bensì gli impianti. Il modello di riferimento sarebbe quello dell’Alitalia dei cosiddetti “capitani coraggiosi”: una bad company su cui scaricare il cumulo di macerie, controversie giudiziarie comprese, accumulato negli anni (ai Riva, azionisti di maggioranza, sono stati sequestrati dalla magistratura 1,2 miliardi di euro per dirottarli al risanamento ambientale); una new company sulla quale costruire il futuro dell’acciaieria, con le banche creditrici, con nuovi soci privati, con un intervento pubblico attraverso il Fondo strategico. Una volta ripulita, insomma, l’Ilva avrebbe ben altro appeal. E allora non si tratterebbe più di “svendita” e potrebbe – a condizioni di mercato sulle quali Bruxelles non potrebbe eccepire sollevando il pericolo di aiuti di Stato vietati dai Trattati – entrare in campo anche una sorta di statalizzazione. Ipotesi che il Renzi, nell’intervista ieri a Repubblica, considera al pari delle altre. Questa, potrebbe anche essere un’ipotesi tattica (dove troverebbe i soldi, non meno di 2-3 miliardi, il governo?) per far vedere a Mittal che lo scenario può anche cambiare. Ma si vedrà. In ogni caso il ricorso alla “legge Marzano” dovrebbe permettere – secondo quanto è trapelato da chi nel governo ha in mano il dossier – al commissario straordinario di venire in possesso in tempi rapidi dei 1,2 miliardi sequestrati ad Emilio Riva e sul cui patrimonio c’è stata la rinuncia degli eredi. Certo il fratello Adriano ha fatto ricorso contro il sequestro ed è in atto una battaglia legale. Ma questo è un altro capitolo del groviglio tarantino.

→  agosto 4, 2014


di Federico Fubini
Giovedì presenterà la sua proposta più operativa: il taglio dei costi delle società partecipate dalle amministrazioni dello Stato e una drastica sforbiciata al loro numero, così esorbitante che nessuno sa più quante sono: di certo, più di diecimila.
L’IMPEGNO DI RENZI
Il 18 aprile scorso Matteo Renzi si è impegnato a ridurle “a mille entro tre anni”. Il premier lo ha fatto nella conferenza stampa in cui annunciò il bonus da 80 euro al mese sui redditi medio-bassi, una promessa mantenuta. Ora Cottarelli intende aiutarlo a rispettare anche quella sulle imprese di cui sono azionisti lo Stato centrale, le regioni, le provincie o i comuni. È un obbligo di legge: il decreto 66, quello sul bonus Irpef, vincola il commissario a presentare in questi giorni un piano sulle mille piccole Iri d’Italia e ormai esso è pronto. Il piatto forte sarà un doppio programma di liquidazione e accorpamento di migliaia di imprese pubbliche o semi-pubbliche.
AL LAVORO CON LA CORTE DEI CONTI
Per arrivarci, Cottarelli ha lavorato fianco a fianco con la Corte dei Conti su ciò che è dato sapere dei bilanci delle società pubbliche. È stato un viaggio dalle gigantesche controllate della Regione Lombardia, alle follie veneziane, fino alle società “in house” di Priolo Gargallo in Sicilia, passando le attività balneari di Alassio, l’incredibile voragine finanziaria di Viareggio, i problemi della provincia di Firenze e gli scioccanti livelli di costo pari e inefficienza dell’Ama, la società dei rifiuti del comune di Roma.
In Italia le società controllate al 100% da amministrazioni dello Stato sono circa cinquemila, di cui 400 in mano alle regioni. Cottarelli definisce questo mondo una “giungla”. Un codicillo fatto passare dal governo di Mario Monti due anni fa ora obbliga gli amministratori di questa giungla a fare un po’ di trasparenza: i revisori devono registrare i loro conti sul Siquel, la banca dati della Corte dei Conti. I primi numeri iniziano ad emergere proprio in queste settimane, con vaste lacune, ma il quadro che si profila appare già più critico del previsto. Non c’è solo il fatto che, in aggregato, le partecipate viaggiale con una perdita netta di 1,2 miliardi (sul 2012). C’è di peggio: anche gli utili dichiarati spesso sono da prendere con le molle. Non che siano falsi: sono solo indebiti, in molti casi. Possibile? Solo la metà delle cinquemila imprese prese in esame dalla Corte dei Conti, dunque appena un quarto della galassia del capitalismo di Stato, dichiara la vera entità dei trasferimenti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche. Ma già così i dati sono eloquenti: 61 imprese, alcune enormi, incassano in cambio della loro attività delle somme superiori al valore della loro produzione. È come se i contribuenti pagassero qualcuno per farlo lavorare otto ore, ma questi ne assicurasse solo quattro o sei. Date proporzioni del campione, è dunque certo che le imprese pubbliche in questa situazione in Italia sono molte più di cento. Senza parlare di altre aziende partecipate che forniscono servizi a costi eccessivi o costituiscono veri e propri doppioni con gli enti che le controllano.
IL CASO LOMBARDIA
Il caso Lombardia è forse il più evidente, anche se fino a oggi era difficile per il contribuente di quella regione misurare i costi che sta coprendo. Non che la giunta guidata da Roberto Maroni controlli al 100% molte imprese: sono appena quattro, create per esternalizzare certe funzioni e la fornitura di servizi. Ma il loro fatturato totale sfiora i 400 mino lioni di euro, molto più della spesa in personale dell’ente stesso. I trasferimenti dall’azionistacliente — cioè la Regione — non sono stati comunicati dai revisori alla banca dati della Corte dei Conti, ma colpisce un fatto: il fatturato di Lombardia Informatica, la società per la fornitura di beni e servizi elettronici, raggiunge la cifra monstre di 185 milioni di euro (sul 2012). Costa molto ma almeno la Regione risparmia sulle spese in computer, si presume. Sbagliato: nel bilancio preventivo per cassa della giunta Maroni figurano nel 2014 altri 71 milioni per “statistica e servizi informatici”. Di conseguenza ogni volta che vedono salire le addizionali regionali, i contribuenti lombardi possono legittimamente sospettare che stanno pagando due volte per le stesse funzioni dell’ente che li tassa.
IL RECORD DI ROMA
Il comune di Roma Capitale detiene invece un altro record: una sua impresa riesce a incassare denaro in eccesso al valore della propria produzione a livelli senza eguali in Italia e forse in Europa. Si tratta dell’Ama, ovviamente. Ai conti del 2012, la società romana della raccolta rifiuti ha fatturato per 752 milioni di euro ma il totale delle erogazioni pubbliche a suo favore ha superato il miliardo. In sostanza ha incassato 250 mila euro per pulizie che non ha fatto, e si vede: malgrado la grande disponibilità di denaro del contribuente, Roma resta senz’altro la capitale più sporca dell’Unione europea. E l’utile di 16 milioni dell’Ama può in realtà essere visto come una perdita, se solo i pagamenti fossero stati in linea al lavoro effettivamente svolto. Roma non è sola, beninteso.
Venezia per esempio le fa compagnia con alcuni risultati singolari. Sul 2012 la Cmv Spa, la società del casinò del comune, dichiara un “valore della produzio- ne” di 72 milioni di euro ma erogazioni dall’ente azionista di 173 milioni. In sostanza, il casinò viene sussidiato dalle tasse per oltre il doppio del suo fatturato. Per non parlare dell’Istituzione per la Conservazione della gondola e la tutela del gondoliere: fattura mezzo milione, incassa dal comune 760 mila.
TRA FIRENZE E VIAREGGIO
Più a sud spicca il caso della Florence Multimedia, società di pubbliche relazioni fondata dalla provincia di Firenze quando presidente era Matteo Renzi. Sia il ministero dell’Economia che la Corte dei Conti hanno mosso rilievi molto critici sulla gestione. Certo nel 2012, quando Renzi non era più alla provincia, è fra le società pubbliche che incassano più di quanto fatturato: oltre 1,1 milioni di euro. Niente a confronto di Viareggio, una piccola Grecia in Toscana. Lì il comune nel 2012 dichiarò un deficit di 1,5 milioni, che la Corte dei Conti rivide al rialzo a 9 milioni. L’anno dopo, cambiata la giunta, il buco sale a 53 milioni di euro per le perdite più o meno nascoste in precedenza. Pesano le voragini di società “esterne” come la Viareggio Patrimonio o la Fondazione Carnevale.
La lista delle assurdità potrebbe continuare. A Alassio la società comunale “Bagni del Mare” fattura 43 euro ma ne incassa centomila. A Ascoli in Palio della Quintana ne fattura 63 mila ma gliene versano 274 mila. E così via. Non tutti lasciano che le cose continuino così: nel Lazio il governatore Nicola Zingaretti ha ereditato una regione al default di pagamento sui fornitori, ma è già riuscito cinque controllate e ne vuole eliminare dieci su 40.
Non è mai facile chiudere una società di una Regione, perché serve il voto a maggioranza del consiglio e gli eletti del popolo di solito non vogliono mai privarsi di una buona fonte di spesa e sprechi. Specie ora: in ottobre si vota in Emilia-Romagna, in primavera in altre sei Regioni. Per Renzi, è arrivato il momento di mostrare che sulla sua promessa di quattro mesi fa fa davvero sul serio. Con o senza Cottarelli.

→  giugno 15, 2014


È “giocoforza riconoscere che la strada finora seguita è del tutto sbagliata” scrive Luciano Gallino (Rpubblica, 11 giugno): pagando gli interessi sul debito – 81 miliardi nel 2013, 86 nel 2014, 104 nel 2016 – lo Stato viene meno all’impegno di restituire ai cittadini le risorse che da loro riceve, e così alimenta la disoccupazione.

leggi il resto ›

→  ottobre 24, 2013


Adriano Prosperi
Col processo e con la condanna di Priebke l’Italia aveva dato una lezione di civiltà giuridica al mondo intero. Non vendetta, solo giustizia: una regolare estradizione dell’assassino delle Ardeatine dall’Argentina, un processo, la sentenza. E dopo la condanna la concessione dei benefici dell’età. Così l’antico capitano delle SS ha potuto muoversi tranquillamente per Roma in mezzo agli eredi delle sue vittime. Ne ha fatto uso per rivendicare un miserabile orgoglio di soldato e per negare l’ingranaggio di morte di cui era stato un piccolo anello. Dietro di lui intanto altri pensavano a come farne un’icona politica dopo il vicino decesso. A favore del disegno c’era la prevedibile benedizione della Chiesa e il consueto facile perdono italico. Ma stavolta dall’alto di quel Vaticano che non aveva visto il rastrellamento degli ebrei del 1943 qualcuno ha visto il disegno e ha inceppato il meccanismo. E subito dopo l’onore dell’Italia civile è stato salvato dal popolo di Albano Laziale. È fallito così il tentativo di una burocrazia cieca e di un manipolo di antisemiti in tonaca di inscenare una celebrazione del morto e del nazismo nei luoghi bagnati dal sangue delle vittime. Ma da qui le cose hanno preso la strada sbagliata. Dopo la collera immediata e sacrosanta del popolo di Albano è subentrata quella dei poteri statali, dei partiti, dei rappresentanti della comunità ebraica. Ora, l’ira è ottima consigliera quando si deve reagire all’ingiustizia: ma non è con l’inchiostro dell’ira che si possono scrivere le leggi. Una legge è qualcosa che si scrive con attenzione, pensando a quello che ne deriverà. Non si legifera a furor di popolo. Non per questo sono state create costituzioni liberali e rappresentanze elettive. Invece stavolta, a caldo, alla vigilia del 16 ottobre, è stato proposto in Parlamento un emendamento all’art. 414 del codice penale che estende la pena del carcere (da uno a cinque anni), già prevista per i colpevoli di apologia e istigazione di delitti anche a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità. Ora, di leggi sbagliate ce ne sono tante in Italia: e siccome si ricorre sempre e solo al carcere abbiamo in Italia la vergogna di carceri orrende che scoppiano di abitanti. Ma questa non è solo una legge sbagliata: una norma penale contro un reato di opinione non può entrare nel codice di un paese erede dei principi dell’Illuminiperasmo senza alterarlo in modo sostanziale. Quanto agli effetti di una simile legge basta guardare ai paesi che ne hanno già di simili. È bastata una sentenza austriaca contro David Irving per fare di un sedicente storico che nessuno prendeva sul serio in Inghilterra, un martire della libertà di pensiero. Il suo caso ha fatto scuola. Nella civiltà dello spettacolo ci sono legioni di aspiranti alla “visibilità” pronti a imitarlo. Lo scandalo è la via universale al successo. Una condanna per negazionismo è oggi un buon biglietto d’ingresso sul palcoscenico televisivo della cultura di massa. I più furbi lohanno capito subito: lo mostrano gli echi a caldo del caso Priebke. E dietro l’intellettuale che invoca il suo superiore diritto a dubitare ci sono masse di analfabeti civili stufi di rituali di una memoria subìta. Non per niente Georges Bensoussan ha scritto che «oggi la Shoah è talmente commemorata da generare insofferenza». Bisogna dunque, secondo lui, che dalla politica della memoria si passi alla politica della storia. Ebbene, proprio questo e non altro è il punto. Oggi con la scomparsa della generazione dei sopravvissuti ai lager sta venendo meno la loro opera di “testes veritatis”: un’o- preziosa, svolta vincendo resistenze profonde, sfidando la distrazione e il rifiuto di un mondo che già all’altezza del 1945 era preso da altre cose e voleva solo voltare pagina. Con altri strumenti si dovrà dunque affrontare la minaccia della dimenticanza e della negazione: due facce della stessa realtà, anche se la menzogna del negazionismo è immensamente più grave perché è la continuazione con altri mezzi della strategia nazifascista. Non fu per caso se notte e nebbia avvolsero lo sterminio: cancellare le tracce, disperdere le ceneri, furono le strategie di una deliberata amputazione della memoria. Se le potenze dell’Asse avessero vinto, se a Stalingrado i russi non avessero resistito, vivremmo in un mondo che non saprebbe nulla della Shoah. Non è andata così: e oggi nel mondo risollevatosi a fatica dall’abisso c’è una diffusa coscienza di ciò che ci spetta. Sappiamo che la memoria dell’accaduto, la conoscenza e lo studio infaticabile dei fatti sono la sola fragile difesa di una specie umana che non voglia ricadere nell’orrore. E, nonostante l’opinione diffusa, va detto che questo riguarda in particolare gli italiani. L’autoassoluzione che ci siamo generosamente impartiti ha lasciato tutto il peso dell’antisemitismo e della Shoah sulle spalle tedesche. Che cosa fecero o non fecero le autorità politiche e le guide religiose del paese mentre si scivolava sul piano inclinato della caccia all’ebreo e dello sterminio? Qui la ricerca è appena cominciata: non tutti gli archivi sono aperti, ma già, grazie per esempio alle scoperte di Giorgio Fabre e alle più recenti indagini di Lucia Ceci, è possibile rispondere alla domanda di come Mussolini riuscisse a tacitare Pio XI e a tirarsi dietro la Chiesa nell’operazione delle leggi razziali del 1938. Un’operazione con cui l’Italia fascista batté nel tempo la Germania. Quelle leggi ebbero il primo banco di prova nella scuola. Da qui dunque bisogna ripartire, dal luogo dove tutto è cominciato. Una scuola pubblica rinnovata, un sistema di conservazione e trasmissione di memorie e saperi – biblioteche, archivi, formazione di ricercatori e insegnanti – potrebbero essere le armi per far fronte al negazionismo e più ancora alla labilità della memoria dei popoli e degli individui. Ma l’impresa di una campagna di alfabetizzazione civile di un popolo inebetito dal consumo televisivo non è né facile né popolare. Più facile varare un’altra legge inutile.