→ luglio 25, 2014

di Guido Tabellini
Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell’area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l’inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell’offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell’area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito.
Alla fine del 2013, i consumi privati dell’intera area euro erano del 2% sotto i livelli raggiunti a fine 2007; gli investimenti privati erano sotto del 20%; solo le esportazioni sono salite di quasi il 10% negli ultimi sei anni. Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell’area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l’emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell’arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull’espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell’operazione: l’espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l’aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso.
E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie. Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un’ipotesi del genere nell’area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l’azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l’intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l’aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana? Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt’altro che scontata, perché l’assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l’anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c’è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.
Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata. In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile. E le politiche dell’offerta per ridare competitività all’economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell’economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive. In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l’area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.
→ luglio 20, 2014

di Paolo Savona e Michele Fratianni
Il ministro Carlo Padoan non è uno sprovveduto: conosce l’economia, come disciplina accademica, e ha esperienza di vita concreta di policy all’interno e all’estero. Se dichiara in Parlamento che il programma del Governo Renzi include l’attuazione delle sei raccomandazione che il Consiglio Ecofin dell’Unione Europea dobbiamo credergli. Quando però afferma che la crescita, divenuta l’obiettivo della politica europea, è inferiore alle aspettative – anzi quasi nulla, come indicano la realtà e le ultime previsioni della Banca d’Italia – e tarda a manifestarsi ignora o finge di ignorare che esiste una frattura tra gli auspici di sviluppo del suo Governo e dell’Ue e il programma indicato. Naturalmente risponderà ancora una volta, come fatto dai precedenti ministri, che ciò non è dovuto al programma di riforme richiesteci dall’Europa e accettato dal Governo, ma al ritardo nella sua attuazione.
Il problema, invece, potrebbe essere nel programma stesso. Non è la prima volta che, unitamente a illustri colleghi, abbiamo sostenuto l’incoerenza tra la pressione tributaria sui redditi e sui risparmi e l’inarrestabile procedere della spesa pubblica, che è la vera causa del freno alla crescita del Pil e dell’occupazione. La strategia dominante di riduzione del deficit di bilancio pubblico e di perseguire avanzi primari per ridurre il rapporto fra debito pubblico e il prodotto interno lordo non ha funzionato, anzi ha avuto effetti perversi sulla crescita.
I sacrifici fatti hanno prodotto effetti irrisori rispetto alle forze che agiscono direttamente sulla consistenza della spesa pubblica e del debito statale in rapporto al Pil e hanno penalizzato la crescita economica. Quante altre conferme dobbiamo attendere prima che i Governi cambino strategia? Necessita un’azione sul debito pubblico e non sui flussi che tagli in breve tempo una fetta sostanziosa del suo stock senza penalizzare la crescita economica e il valore reale dei risparmi accumulati dagli italiani. Questa strategia passa attraverso una disponibilità a pronti e una cessione secondo i tempi del mercato dei beni dello Stato che permetta prima un alleggerimento dell’eccessivo peso del settore pubblico sul settore produttivo e poi un rilassamento della morsa deflazionistica dell’alta fiscalità. Il programma di questo Governo non affronta il nocciolo del problema e, di conseguenza, finirà per aggravarlo. Spieghiamo il perché.
Se la politica tributaria suggerita dall’Ecofin e condivisa dal Governo intende spostare l’onere della pressione fiscale dai redditi ai consumi e alla ricchezza, spingendo l’operazione fino a garantire un avanzo primario strutturale che avvii la riduzione del debito pubblico (anche se in un arco di un quarto di secolo), ci sono tutte le premesse che il Paese entri in una crisi strutturale irreversibile. Il problema della povertà di cui si discute in questi giorni verrà attenuato con una riduzione del Pil pro capite che, come noto, è la base di questi calcoli: se tutti diventassimo più poveri a seguito delle politiche seguite, i poveri attuali lo saranno relativamente meno. La filosofia sottostante la politica di redistribuzione del reddito e della ricchezza è nel Dna della sinistra tradizionale. Essa ha come sfondo non ideologico l’ipotesi che i meno abbienti spendano più dei maggiori abbienti e, quindi, il moltiplicatore keynesiano del reddito salga.
Condendo questa filosofia con istanze di equità sociale si ottiene il consenso, ma si produce un risultato perverso sul reddito e l’occupazione perché non si tiene conto che la domanda aggregata riguarda una struttura dell’offerta interna di prodotti e servizi che agisce in senso deflattivo se vengono ridotti i redditi dei più abbienti; ciò induce le imprese a delocalizzare produzioni e occupazione e i risparmiatori a risparmiare di più per fini cautelativi e compensare le perdite di reddito atteso e di valore della ricchezza accumulata dovuto alla maggiore tassazione. Si causa cioè un contro-effetto certo sulla crescita rispetto a quello incerto atteso dalla redistribuzione del reddito. Questo effetto è particolarmente grave nel settore immobiliare che resta un motore di crescita più potente delle esportazioni – come testimoniano anche i dati 2013 esposti nella Relazione della Banca d’Italia – ma viene discriminato come testimoniano le dichiarazioni rese in Parlamento dal ministro dell’Economia, che afferma essere questa una precisa volontà dell’Ecofin.
Draghi condivide questa impostazione avendo escluso l’edilizia dalle operazioni straordinarie finalizzate alla crescita preannunciate per settembre (campa cavallo…) per paura di nuove bolle speculative, mentre in Italia queste “bolle” sono deflattive! In sintesi, temiamo che vi sia una tremenda confusione di idee e, quindi, di politiche. Se il Governo vuole veramente la crescita, operi sulla dimensione e l’efficienza della pubblica amministrazione e lasci in pace fiscalmente il resto del sistema per un lungo periodo. Produzione e occupazione rifioriranno, sospinti da consumi e forse anche da investimenti (ma questa è un’altra e più complicata storia). In queste condizioni potremmo realizzare anche la tanto agognata e necessaria stabilità politica.
→ luglio 13, 2014

Intervista di Maria Teresa Meli a Matteo Renzi
Polo viola, jeans, sneakers , il presidente del Consiglio è loquace e sarcastico come sempre: «Scusi se la ricevo così, ma tanto qui il sabato mattina non c’è praticamente nessuno». Lui c’è. Anche perché ha in programma diverse telefonate con i leader del Pse in vista della «cena delle nomine», il 16. Poi deve chiamare il presidente ucraino Petro Poroshenko e il premier spagnolo Mariano Rajoy.
Ha l’aria di uno che ha fatto le ore piccole. Ed effettivamente è così. Si è svegliato alle cinque del mattino per leggere il suo livre de chevet , «la mia lettura quotidiana», lo chiama lui, il libro che ha sempre sotto mano e che ieri mattina troneggiava anche sulla sua scrivania: il riassunto del bilancio dello Stato, voce per voce. Lo compulsa (da solo) quotidianamente e con Pier Carlo Padoan, Carlo Cottarelli e i loro rispettivi staff settimanalmente. Lo sa quasi a memoria. Tanto che l’altro giorno un funzionario addetto alla spending review è rimasto stupito perché conosceva l’esatto ammontare di una voce che non gli tornava. Sulla sua scrivania c’è anche un altro dossier. Ben più agile. Glielo ha dato Denis Verdini. Allungando lo sguardo, nell’attesa che il premier multitasking si occupi della politica internazionale, saltano all’occhio le simulazioni dei diversi sistemi elettorali. Si finirà per parlare di entrambi i dossier. Non perché giacciono lì sul suo tavolo, ma perché lui lega la politica italiana e quella europea con un nodo indissolubile.
Colto l’occhio della giornalista sul suo tavolo, l’avvio della conversazione è questo: «Calcisticamente parlando, qualcuno pensa che io sia un fantasista, cioè quello che inventa il colpo a sorpresa, o il portiere fortunato, che para i rigori perché provoca l’avversario. Non hanno capito che, dal punto di vista amministrativo, io sono un mediano (o in termini non calcistici, accessibili anche a chi non si interessa di pallone, un mulo), che su tutti i palloni si mette lì e “butubum-butubum” studia le carte. Ma è meglio che non lo abbiano compreso: così arrivo a fari spenti lì dove voglio arrivare, con buona pace di tutti i commentatori e dei professionisti della gufata».
Presidente, lei parla così, ma intanto c’è chi dice che la troika potrebbe commissariarci.
«Mai e poi mai. È un’ipotesi che non esiste. Dirò la verità: io non vivo nel terrore dei mercati. L’Italia è più forte delle paure dei vari osservatori e i dati lo dimostrano».
Be’, tutti i dati, no.
«Ogni giorno ci sono istituti che sfornano montagne di dati e ognuno legge quelli che vuole. Qualcuno poi si è accorto che nell’ultimo mese c’è stato un aumento di oltre 50 mila posti di lavoro? No, perché, com’è naturale, fa notizia l’albero che cade e non la foresta che cresce. L’Italia è molto più forte di come si racconta in sede internazionale: ha un alto debito pubblico, è vero. Ma ha ricchezza privata e se rimette finalmente a posto il fisco, la burocrazia e la giustizia ce la può fare. Il problema, però, è che la ripresa europea è fragile. Molto fragile. Più del previsto. Il problema è che la produzione industriale non segna negativo solo in Italia ma in quasi tutta Europa, a cominciare dalla Germania».
Ma noi abbiamo qualche problemino in più. Non ha paura dei mercati?
«No. Non mi preoccupano gli investitori internazionali. Al massimo, possono preoccuparmi i frenatori italiani. Ma sono convinto che li stiamo sconfiggendo ogni giorno di più. Tre anni fa, i mercati segnalarono un “problema Italia” in Europa. Adesso c’è un problema Europa nel mondo. Certo, alcuni analisti continuano a dire che noi non ce la faremo. Ma mi piace pensare agli esperti di alcune banche che dieci anni fa dicevano che l’Italia sarebbe fallita. In questi dieci anni sono fallite le banche e nessuno ce l’aveva annunciato. L’Italia, invece, è sempre qui».
Ma non si può dire va tutto bene, madama la marchesa.
«D’accordo con lei. Infatti non va tutto bene. È una situazione difficile, da gestire con grande responsabilità. Ma essere responsabili non significa essere catastrofisti. Responsabile è chi quando vede un ostacolo prova a cambiare strada, non chi urla più forte».
Presidente, può assicurare che i bonus verranno confermati anche il prossimo anno?
«Gli 80 euro verranno senz’altro riconfermati. Stiamo ragionando se sia possibile allargare la platea, partendo da famiglie, partite Iva, pensionati. Questo non lo sappiamo ancora».
Dipende da quel librone che tiene sulla scrivania?
«Anche e non solo».
Cioè?
«Se noi vogliamo avere la forza di mutare il modello di politica economica della Ue, basato tanto sul rigore, e poco sulla crescita, dobbiamo dimostrare di essere capaci di cambiare prima il nostro Paese. Ecco perché attribuisco grande importanza alla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, perché simbolicamente significa che la classe politica non ha paura di cambiare se stessa. E questo le dà l’autorevolezza di dire, in Italia, che si possono abbassare i tetti degli stipendi dei manager pubblici e dei magistrati, per fare un esempio, e di spiegare in Europa che è ora di cambiare verso».
A proposito di Italia, sul Senato non avete ancora convinto tutti .
«Impossibile convincere tutti. Però mi pare che in Commissione si sia registrato un consenso più ampio della maggioranza. Ed è la prima volta che questo accade: non era successo nel 2001, non era successo nel 2006. Certo, sono un po’ stupito. C’è un consenso di quasi tutti sull’impianto. Persino chi mi accusa di autoritarismo riconosce che semplificare i livelli istituzionali, ridurre il potere delle Regioni, superare il bicameralismo perfetto, costituisce un obiettivo condiviso. Ci sono un paio di punti – un paio, non di più – su cui si è scatenato un dibattito molto duro. In particolar modo sull’articolo 57 che disciplina la composizione del nuovo Senato seguendo il modello tedesco. Mi piacerebbe discutere sulle grandi questioni del disegno di legge costituzionale. Invece stiamo a discutere se l’elettività del senatore sia di primo o di secondo livello. A mio giudizio l’obiettivo dei frondisti non è questo».
Qual è, allora?
«Affermare l’elezione diretta per poter dire che il Senato deve avere più poteri. Non si rassegnano all’idea della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori. Inoltre, metto nel conto le resistenze fisiologiche e comprensibili delle burocrazie. Anche per questo, il risultato della Commissione è un passaggio straordinario. E non è che l’inizio. In questa settimana noi abbiamo lavorato su agenda digitale, riforma della pubblica amministrazione, servizio civile universale, riforma della giustizia: il fatto che voi giornalisti siate più attenti ai sospiri di Mineo, Minzolini e Mucchetti che non a questi provvedimenti, mi sembra più il frutto di un affetto tra colleghi che di una valutazione di merito».
Venendo al merito: i frondisti dicono anche che con questa riforma del Senato e con l’Italicum chi vince le elezioni vince tutto e addio democrazia.
«Ho notato come il suo occhio andava a quel documento che riguarda le simulazioni sulla Camera dei diversi sistemi elettorali sulla base delle ultime Europee. Ebbene sa quali sono i risultati? Con il Mattarellum senza lo scorporo, sui 475 collegi uninominali, il centrosinistra ne avrebbe 458, con lo scorporo ne avremmo 438, con il Mattarellum corretto ne guadagneremmo 504 (e Grillo ne avrebbe zero), con il Consultellum 340 (perciò avremmo sempre la maggioranza) e gli stessi con l’Italicum. Quindi, di quale Parlamento a mia immagine e somiglianza si parla?».
Intanto Grillo prepara il sit in.
«È la cosa che gli riesce meglio. Organizzare proteste è il suo mestiere. Il mio, invece, è cambiare l’Italia. Vorrà dire che martedì mattina, mentre si prepara alla 27esima marcia su Roma, che ormai mi sembra una retromarcia su Roma, e mentre urla al 42esimo colpo di Stato dall’inizio della legislatura, gli faremo trovare una puntuale risposta del Pd – argomento per argomento – al suo decalogo della settimana scorsa. Alcuni parlamentari e amministratori 5 stelle sono molto bravi. Spero che abbiano la forza di farsi sentire e non siano zittiti dal blog o espulsi. Le loro idee ci stanno a cuore, la loro passione non merita di disperdersi in un insulto o in una manifestazione».
Perché tutta questa fretta per il Senato? Per paura che arrivi prima la sentenza sul caso Ruby?
«Non la chiami fretta. La chiamo urgenza di dare agli italiani il messaggio che finalmente si cambia. Comunque, Forza Italia sta mantenendo un atteggiamento di grande responsabilità, come del resto tutti i partiti che hanno votato la riforma. Le vicende giudiziarie di Berlusconi sono slegate dal processo di riforma costituzionale. A dispetto di alcune dichiarazioni di fuoco dei suoi, Berlusconi fino a questo momento non ha mai fatto venir meno la sua parola e il suo impegno: diamo a Cesare quel che è di Cesare».
Sembra che lei stia agendo su due fronti in contemporanea: la partita italiana e quella europea.
«Sono legate indissolubilmente. Le faccio qualche esempio pratico. Nel piano sblocca Italia c’è un progetto molto serio sullo sblocco minerario. È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini. È vero: stiamo combattendo su due fronti. Vogliamo restituire autostima all’Italia, ma anche dire che bisogna cambiare. Ed è per questo che ci siamo impegnati sulla legge Madia, quella sulla pubblica amministrazione: sarà una vera rivoluzione. Semplificherà e velocizzerà tante cose, migliorando la vita degli italiani e abbattendo i costi. E anche per questo incontra tante resistenze. Dall’altro verso, vogliamo far capire all’Europa che bisogna imboccare un’altra strada. Il mio unico cruccio è che non riesco – per colpa mia – a spiegarmi bene su quanto sia importante fare le riforme a casa nostra. I mille giorni non sono certo un modo per perdere tempo, ma un progetto di comunicazione organica che consentirà di legare il binomio flessibilità-riforme sia a livello europeo che cittadino».
In Italia, però, c’è chi pensa che lei si stia muovendo solo per se stesso.
«Non è così. Io vorrei che la classe politica italiana fosse consapevole che ci stiamo giocando tutto e che questa volta è possibile farcela. Anche per questo spero che Boldrini e Grasso abbiano la forza di mettere un tetto a tutti i loro alti funzionari come abbiamo fatto noi con i manager di Stato e pure con i magistrati».
Tornando all’Europa: come sono i suoi rapporti con Angela Merkel?
«Io la stimo molto. L’ho sentita ieri (l’altro ieri n.d.r. )».
Avete litigato sulla flessibilità?
«Nel senso che io le ho detto che con il Brasile la Germania era stata poco flessibile e lei mi ha risposto: ci vuole la giusta flessibilità».
In Italia: c’è stata polemica perché Indesit ha venduto a Whirlpool.
«La considero un’operazione fantastica. Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata. Noi, se ci riusciamo, vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto, come a Termini Imerese, nel Sulcis, come nel Veneto. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro, gli imprenditori stranieri in Italia sono i benvenuti».
Presidente, la sua querelle con le banche a che punto è?
«Le banche non hanno più alibi. Patuelli (presidente dell’Associazione bancaria italiana ndr ) che fa la lezioncina all’annuale assemblea dell’Abi non si può sentire. Ho molto apprezzato la reazione pacata ma tosta di Padoan. Le banche adesso sono piene di liquidità. Diano i soldi alle aziende, invece che lamentarsi. Con l’operazione Draghi non hanno più ragione di lamentarsi, né di mettere in sofferenza i piccoli artigiani, gli imprenditori del Nordest, le partite Iva. Navigano nei soldi, li spendano, grazie».
Ultimo capitolo, non certo per importanza, le donne. L’hanno criticata per l’uso strumentale delle suddette nel governo.
«Tanto, una critica in più, una in meno, cosa vuole che cambi. Preferisco essere criticato perché ci sono molte donne che lavorano in posti di responsabilità, che non perché siamo i soliti maschilisti. Una donna guida gli Esteri, una la Difesa, una sta seguendo la riforma costituzionale, una la riforma della pubblica amministrazione, una la politica industriale, una il patto per la salute. Le sembra poco? Preferiva prima? Nel frattempo, abbiamo nominato nelle posizioni di vertice una donna all’Agenzia delle entrate, una all’Agenzia digitale, una per i fondi europei, una alla guida del Legislativo di Palazzo Chigi. Forse i maschilisti sono i giudici che al Csm eleggono una sola magistrata».