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Archivio per il Tag »Barbara Spinelli«

→  giugno 21, 2015


articolo collegato di Barbara Spinelli

Dice Christine Lagarde, mettendo in guardia la Grecia in nome del Fondo Monetario, che «possiamo riavviare il dialogo solo se ci sono adulti nella stanza». Paradossalmente ha ragione: ci sono troppe persone incaute, troppi esperti economici privi di memoria storica e coscienza geopolitica, nelle stanze dove da mesi si sta decidendo il destino non tanto di Atene, quanto dell’Unione. Perché quando si discute dell’euro e delle sue regole, quando si invocano istituzioni europee più solide senza mettere in questione i parametri chiamati a sorreggere la moneta unica, è di tutta l’Europa che si parla e non di un singolo Paese in difficoltà.

Non è completamente adulto il Fmi, che difende a oltranza riforme strutturali giudicate dal Fondo stesso nocive e controproducenti, dunque sbagliate, fin dal 2013. Non sono adulti coloro che agitano lo spettro del Grexit, fingendo che sia una cosa facile, seminando panico nei risparmiatori greci, disinformando sul caos che regnerebbe nella Banca centrale ellenica. I Trattati dell’Unione e lo statuto della Bce non prevedono uscite unilaterali dall’euro, a meno che il Paese a rischio bancarotta non decida preliminarmente di abbandonare l’Unione stessa. Cosa che il governo greco non ha alcuna intenzione di fare. Cacciarlo non si può.

La verità l’ha accennata Mario Draghi, il 15 giugno nel Parlamento europeo, chiedendo che a sciogliere i nodi siano i politici dell’Eurogruppo e non i banchieri centrali. Si è guardato dal proporre alternative serie, ha ripetuto che «la palla resta inequivocabilmente in campo greco», e con ciò è stato più “politico” di quanto pretendesse, ma ha ammesso che in caso di ulteriore deterioramento dei negoziati «entreremmo in acque inesplorate».

Le pressioni che si stanno esercitando su Atene, perché comprima ancor più spesa pubblica e pensioni già ridotte al minimo, conferma che l’Unione è guidata da poteri sprovvisti di senso della responsabilità. Se fossero adulti, quei poteri inviterebbero nelle stanze dei negoziati persone che abbiano senso storico, e soprattutto memoria. Persone con una visione centrale e un forte principio ispiratore, consapevoli del fatto che la storia è tragica, memori dei disastri passati e lucide sui pericoli incombenti: lo sfaldarsi dell’Unione, e della sua forza di attrazione presso i propri cittadini.

Ci sarebbero, seduti al tavolo delle trattative, esperti geo-strategici, ed economisti sistematicamente disprezzati, anche se in questi anni non hanno sbagliato previsioni, come i due premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman. Tra coloro che insistono nel chiedere al governo Tsipras riforme strutturali già compiute non si annoverano economisti preveggenti ma piccoli politici che pur di conservare il potere rimangono pigramente appesi a dottrine dell’austerità al tempo stesso egemoniche e defunte, perché smentite da fatti di cui non si vuol tenere conto. Il prodotto interno lordo della Grecia, calcolato a prezzi costanti, è già calato del 27% a seguito dell’austerità, il debito pubblico è salito al 180% del Pil, e la disoccupazione è giunta al 27%.

Gli esperti in geopolitica aiuterebbero a capire la centralità della Grecia in un’Europa alle prese con un caos, alle proprie frontiere orientali e meridionali, che non sa e non vuole affrontare autonomamente, prendendo le distanze da una strategia statunitense che coscientemente resuscita la guerra fredda con la Russia e che al di là del Mediterraneo ha contribuito a creare un arco di destabilizzazione esteso dall’Africa subsahariana fino all’Afghanistan. La Grecia è ai confini con questo mondo, all’incrocio tra Balcani, Medio Oriente, Siria. I suoi legami con la Russia sono forti e antichi. L’avversione del governo Tsipras alle guerre contro il terrore, e oggi a interventi militari in Libia per smantellare le reti di trafficanti, è ben conosciuta a Berlino e Parigi. Non meno conosciuta è la sua avversione al Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Qualcuno forse nell’Unione vuol perdere Atene proprio per questi motivi. Ma la perdita sarebbe un suicidio geopolitico dell’Europa.

Se non vuole continuare a essere una pedina delle amministrazioni Usa e precipitare in una nuova guerra fredda, se vuole guardare con occhio freddo alla questione ucraina – riconoscendo che da un’oligarchia filorussa si è passati a un’oligarchia legata a estreme destre russofobe – l’Europa non può fare a meno della Grecia. Non può farne a meno neanche sulla questione immigrazione. Il nuovo governo ellenico sta affrontando un afflusso di migranti e richiedenti asilo ben più pesante e improvviso di quello italiano. Lo fa senza cedere a impulsi xenofobi. È non solo scandaloso ma immensamente ottuso giocare con l’ipotesi di un Grexit, e tacere sull’Ungheria che il 17 giugno ha annunciato la costruzione di un muro lungo 175 chilometri, ai confini con la Serbia, per fermare l’ingresso di profughi e migranti.

Mancano infine persone con un minimo di cultura generale, al tavolo delle trattative. In un articolo uscito il 16 giugno sulla Welt, il commentatore Jacques Schuster mette in guardia i connazionali tedeschi sostenendo che Tsipras si sta rivelando uno dei politici più astuti e abili d’Europa. In che consistono quest’astuzia e quest’intelligenza? Nel sondare l’anima tedesca, e nel profittare malvagiamente e furbescamente dei «nervi deboli» della Germania. Non potrebbe essere altrimenti, perché «i greci sono un popolo di naviganti», e i naviganti «sono abituati a fluttuare nelle acque, e a oscillare sull’orlo del baratro».

Articoli del genere sono allarmanti. Tornano parole del primo anteguerra, con le sue allusioni psico-etniche alla “nervosità” di singoli popoli personificati. E torna la distinzione tra mare e terra prediletta da Carl Schmitt negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso: tra popoli senza legge abituati a dondolarsi negli oceani e civiltà ben ancorate alla terraferma, capaci conseguentemente di darsi il nòmos, la legge e le regole necessarie.

I capi europei sembrano venire da quelle epoche, monarchi che come ubriachi si lasciano tentare da simili vocabolari bellicosi senza averne coscienza. Il futuro dell’Europa è troppo importante per essere affidato a sonnambuli esperti solo in teorie economiche defunte. Essere adulti, in Europa, è riconoscere le acque non solo inesplorate ma melmose in cui rischiamo di entrare.

→  gennaio 16, 2007

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In un articolo di giornale, di solito la conclusione dimostra la validità della premessa. Ci sono invece articoli in cui la conclusione, invece che dimostrare, realizza ciò che viene affermato all’inizio. Un esempio di come si possano “fare cose con le parole”, secondo la famosa espressione di J.L.Austin, è il domenicale di Barbara Spinelli (Veri e finti riformisti, La Stampa, 14 Gennaio).

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→  gennaio 14, 2007

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di Barbara Spinelli

Come usare la parola riformista e quando: è tra i compiti più importanti che abbiamo di fronte, se si vuol riportar ordine nel linguaggio e salvare l’idea stessa di un miglioramento delle nostre democrazie. La parola in questione è adoperata in economia e nelle questioni etiche, in politica internazionale e nelle scelte di pace e guerra. Il suo uso è divenuto a tal punto smodato, dilagante, che un dubbio è lecito: forse il riformismo attraversa una crisi grave, che i sedicenti riformisti occultano con le loro grida. Forse è divenuto l’alibi di chi non sa più pensare in profondità le trasformazioni. Forse nasconde tentazioni utopistiche che ieri contrassegnavano i rivoluzionari. Ci sono parole che sono come governate dalle Erinni, divinità della vendetta: riappaiono e dilagano quando il loro significato si snatura, o s’ingarbuglia sino a svanire. Hanno un’esistenza simile a quella delle persone, fluttuante e fragile: non a caso i greci antichi personalizzavano concetti e cupe passioni, aggiungendo nuovi dèi agli abitanti dell’Olimpo. Un destino analogo è capitato a parole come identità, liberazione, diritti umani, memoria. Sono vocaboli che andrebbero usati con parsimonia estrema, per proteggerli. In attesa della loro resurrezione si potrebbe ricorrere a termini supplenti. La pulizia della politica e della mente comincia sempre con una pulizia delle parole più sciupate dall’uso.
L’Italia non è l’unica a esser affetta da questa sindrome, e l’economia non è l’unico terreno che vede ingarbugliarsi il concetto di riforma. Falsi riformisti son presenti ovunque, con personalità forti.
Son presenti in Germania, dove il riformismo s’accumula spesso senza costrutto e produce una malattia chiamata Reformitis. Hanno dominato per anni la politica americana, influenzando la sua politica estera e l’offensiva contro lo Stato sociale annunciata dalla Rivoluzione repubblicana. In Italia si son moltiplicati da quando Prodi ha formato la sua coalizione e vinto le elezioni. Chi è riformista si sente sperduto e inerme, di fronte alle difficoltà del centro-sinistra. Ha l’impressione di non esser ascoltato e ama descrivere se stesso come solitario errante, sempre sull’orlo di divenire un perdente, anche quando una vasta maggioranza di giornali lo sostiene. Ogni mossa governativa viene esaminata alla luce di questa battaglia fraseologica (il riformista dice raramente le riforme concretamente fattibili) e perderla è un sottile motivo di gloria se non di piacere. Perché chi perde è vittima, e chi è vittima non ha responsabilità: è come se avesse una fedina penale assolutamente pulita, e gli fossero dovuti un risarcimento o una caparra o un monumento.
Il riformista italiano non ha quasi nessuna caratteristica che lo apparenti al riformatore autentico. Non possiede la pazienza di quest’ultimo, né la sua umiltà. Ha fretta di giungere allo scopo che si prefigge, come Orfeo che nella poesia di Rilke vorrebbe salvare Euridice ma guarda innanzi a sé colmo d’impazienza, e «divora la strada col suo passo a grandi morsi, senza masticarla». Masticare la strada è fare sul serio riforme, pagarne il prezzo, divenire vulnerabile, mettersi in gioco e non tenersi in riserva per fantasticate missioni di salvataggio. Il falso riformista non si sporca le mani e se possibile resta fuori dal gioco; consiglia riforme impopolari ma teme in realtà l’impopolarità come la peste. Il più delle volte sceglie lo scranno del commentatore: i giornali sono ghiotti di esporlo in vetrina perché in tal modo diventano essi stessi attori della politica. Ma ci sono anche le volte in cui il riformista opera dal di dentro, condividendo col riformista esterno il fato di vittima. Luigi La Spina lo ha descritto bene su questo giornale, dopo Caserta: «I riformisti di Margherita e Ds non possono far finta di aver perso quando non hanno mai combattuto, se non tra di loro». E la guerra non è stata tra estremisti e moderati ma tra Ds e Margherita attorno a chi, liberalizzando per primo, possa definirsi più riformista dell’altro.
I riformisti frettolosi godono di alcuni vantaggi considerevoli. Come commentatori godono dell’impunità, perché non son costretti a fare e nemmeno a rispondere di quel che scrivono. Non devono dare dimostrazioni pratiche della propria presunta superiorità, perché molti di loro sono in riserva e non giocano ancora. Non pagano prezzi, perché la loro influenza non è costruita sulle servitù dell’azione. Essendo sempre potenzialmente perdenti possono denunciare gli impedimenti che nascono da continui complotti radical-conservatori, di Rifondazione o Diliberto. Se solo potessero governare loro, tutto sarebbe più facile: di questo son sicuri. Ma non possono (forse non vogliono) provarlo, e proprio quest’impossibilità li rende invulnerabili. Possono contraddirsi senza timori, possono difendere il bipolarismo e al tempo stesso auspicare governi centristi di volenterosi, che escludano i radicalismi. Usano l’estrema sinistra come alibi della propria inconsistenza. In Italia sono oggi assai numerosi e spesso si comportano come se la sconfitta di Berlusconi fosse una sciagura. Nei dettagli delle riforme non entrano, perché la loro vera natura è rivoluzionaria. Solo i rivoluzionari danno priorità allo scopo finale, rispetto alla strada che deve esser pazientemente battuta. I falsi riformisti hanno qualcosa di giacobino, di utopistico, decretano presto la morte di una leadership, e in questo somigliano non poco ai falchi della rivoluzione liberista americana e della guerra in Iraq.
In un articolo su Foreign Policy, l’economista-psicologo Daniel Kahneman (premio Nobel 2002) e il politologo Jonathan Renshon si domandano come mai, nella storia politica e umana, i falchi finiscano quasi sempre col prevalere sulle colombe. Hanno la meglio perché posseggono pregiudizi più forti, opinioni inflessibili, e soprattutto illusioni più semplificatrici. Si nutrono di preconcetti non dimostrati e tanto più persuasivi. Primo, il preconcetto a proposito dell’avversario, giudicato fondamentalmente ostile. Secondo, il preconcetto che nasce da un ottimismo sconfinato, cui Kahneman e Renshon danno il nome di «illusione di controllo»: i falchi son convinti di essere più bravi, più brillanti, più attraenti della media. A volte lo sono, come avvenne nella guerra contro Hitler. Ma spesso il loro primato è un vizio: il vizio di chi sopravvaluta i propri successi, esagera il controllo che può avere sugli eventi, nasconde le debolezze dell’avversario o rivale. Il falco è convinto di vincere la guerra in Iraq allo stesso modo in cui il falso riformista in Italia è convinto che – se solo comandasse lui – le riforme si realizzerebbero tutte e subito.
Per capire la natura del vero riformista conviene risalire il tempo, e ricostruire il dibattito che divise la socialdemocrazia tedesca tra la fine dell’800 e il ’900. Eduard Bernstein ruppe con Karl Kautsky e Rosa Luxemburg su questi temi, preferendo la via riformista e revisionista. Disse che per lui il fine era meno importate del movimento che portava al fine: «Il movimento è tutto, il traguardo finale mi interessa di meno». Tra riforme e rivoluzione scelse le riforme, e ne precisò la natura. Nello sviluppo legislativo lento, elastico, egli vedeva operare l’intelletto, mentre nella rivoluzione vedeva il sentimento. La riforma era un metodo graduale di trasformazione, mentre il metodo rivoluzionario era rapido, sbrigativo, condensato. È quel che indignò la Luxemburg, che accusò Bernstein di scartare l’«atto politico creatore» della violenza rivoluzionaria e di privilegiare il miglioramento delle condizioni vigenti, il mero «vegetare della società». Se si guarda agli argomenti dei nostri riformisti, l’impressione è che essi siano più vicini alla Luxemburg che a Bernstein. L’unica cosa che non possiedono, dei rivoluzionari, è lo slancio o l’abnegazione. Il falso riformista è un rivoluzionario cool, che nel frattempo ha gustato il trasformismo o la celebrità.
Chi riforma davvero non divora il cammino a grandi morsi, ma lo percorre piano e lo mastica. Sa che la via più dritta che conduce allo scopo è spesso quella più serpentina. Sa che l’umanità è un legno storto, che si riforma con lentezza, negoziando patti sempre nuovi. In fondo son più riformatrici le sinistre radicali, oggi, che i riformisti. Rifondazione e i suoi ministri si dibattono, promettono di ostacolare, ma fanno anche grandi sforzi per correggersi e correggere le storture italiane. Hanno accettato l’intervento militare in Libano, hanno consentito a sacrifici non indifferenti in economia. Il cammino che compiono con Prodi è unico in Europa.
Torniamo a Orfeo. Nella poesia i suoi sensi appaiono come divisi in due: mentre l’occhio corre in avanti come un cane, tornando indietro sui suoi passi e poi rimettendosi a correre lontano per attenderlo alla prossima svolta, «l’udito restava, come un odore, indietro». Riconnettere lo sguardo all’udito – la visione del traguardo all’esperienza del cammino – è uno dei primi passi, se si vuol restituire al riformismo il significato sciupato.

ARTICOLI CORRELATI
Riformisti: nodo politico non semantico
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2007

→  agosto 17, 2005

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La polemica sulla questione morale

La questione morale» scrive Barbara Spinelli su La Stampa del 14 Agosto, «è innanzitutto una domanda: i politici che governano o vogliono governare, si comportano come si deve?» Scrive «come si deve» in corsivo e spiega: è «una fase che precede la linea di confine a partire dalla quale i comportamenti diventano penalmente rilevanti». Senza le norme di legge, in quelle zona «che comincia prima delle scorrettezze legali” ci muoviamo soli, con la nostra sensibilità, storia, cultura.

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→  febbraio 25, 2000


C’è l’Europa comunitaria che, come ricorda Barbara Spinelli nel suo editoriale di domenica, si è costruita sulle proibizioni morali e politiche del fascismo e del comunismo; ma accanto ad essa c’è l’Europa come spazio di civilizzazione, con le decisive conquiste che ha consegnato al mondo, tra cui il metodo democratico e il principio del rispetto delle idee. Il fenomeno Haider è una sfida a queste conquiste, pone problemi che le sanzioni preventive decretate contro l’Austria non risolvono.

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