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Archivio per il Tag »Andrea Ichino«

→  aprile 17, 2010


TOGLIERE LA MENSA SCOLASTICA A UN BAMBINO E’ SEMPRE UN’INGIUSTIZIA, PERCHE’ NON SI PUO’ FAR CARICO A LUI DEI COMPORTAMENTI DEI SUOI GENITORI, PER QUANTO SCORRETTI – MA IN MOLTI ALTRI CASI IL RISCHIO DI DIFENDERE INDEBITAMENTE POSIZIONI DI RENDITA PARASSITARIA DEVE ESSERE ATTENTAMENTE CONSIDERATO E LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA ETICO-POLITICO NON E’ ALTRETTANTO FACILE

Editoriale di Andrea Ichino su La Stampa del 17 aprile 2010

Di fronte a bambini messi alla berlina in mezzo ai loro compagni solo perché i loro genitori non hanno pagato la retta della mensa o dello scuola-bus, è naturale gridare all’ingiustizia. E il motivo è che quei bambini non sono certo responsabili di questa situazione. Ma proprio questo motivo ci invita ad una riflessione su quali siano le situazioni in cui è opportuno che la collettività si faccia carico dello stato di indigenza e povertà dei suoi membri e quali invece quelle in cui l’assicurazione sociale può diventare uno strumento che finisce per proteggere rendite parassitarie.

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→  marzo 7, 2010

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di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Molte voci, nel mondo cattolico, hanno descritto il nostro libro sull ‘Italia fatta in casa come un atto di accusa contro la “Famiglia”. Tra queste, la più autorevole è quella del Cardinal Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio competente per questa materia, che ci attribuisce la tesi secondo cui la famiglia (senza altre specificazioni) «danneggerebbe lo sviluppo economico e sociale del paese». Secondo il Cardinale, inoltre nel nostro libro non è «riconosciuto il valore del lavoro di cura, della solidarietà orizzontale tra le famiglie e verticale tra le generazioni». Simile è la lettura data da numerosi articoli usciti su www.Ilsussidiario.net e quella di Marco Vitale su Vita, che critica il nostro come un «cattivo libro » che può «fare danni».

A noi pare una lettura molto unilaterale e preconcetta di un libro che, per primo, ha calcolato con la maggior precisione possibile il grande contributo dato dalle famiglie al benessere dei cittadini di quattro paesi avanzati, Italia innanzi a tutti, e non rilevato dalle statistiche ufficiali. Abbiamo scritto che il benessere (misurato con tutti i limiti del caso) raddoppia in Italia se si considera il ruolo della famiglia, dimezzando così la distanza economica che ci divide dagli Usa. Abbiamo scritto che la soluzione italiana basata sulla famiglia come erogatrice di servizi sociali produce un assetto che consente di conservare al suo interno non solo gli anziani ma anche la memoria storica, le relazioni, le infinite tradizioni che a essi si accompagnano. Molte madri ci hanno inviato commoventi messaggi di ringraziamento per aver valorizzato agli occhi di mariti e figli il loro prezioso lavoro. A noi tutto ciò non pare poco. Vedere solo il ” bianco” o solo il “nero” nelle cose umane non ha mai prodotto grandi risultati; così, anche il singolare modo di una parte del mondo cattolico di leggere il nostro libro implica un rifiuto della possibilità di migliorare il modo in cui la famiglia contribuisce al benessere del nostro paese. Qualunque parola critica sulle conseguenze negative di un certo tipo di organizzazione familiare meriterebbe un anatema, ma la ricerca sociale non si fa con affermazioni preconcette, e noi siamo appunto ricercatori sociali.
Non ci siamo proposti di incensare la famiglia italiana, ma certo nemmeno di auspicarne la disgregazione. Anzi, in un paragrafo intitolato “Il familismo morale” descriviamo come una catastrofe sociale la distruzione delle
famiglie, citando esempi storici che hanno generato tragedie e dolore in molti paesi. Il nostro obiettivo è invitare gli italiani a riflettere sui costi e sui benefici del ruolo affidato alla famiglia. I costi sarebbero almeno in parte evitabili senza alcuna “disgregazione delle famiglie italiane”, che nessuno di noi si sogna di proporre.
Parliamo di esempi concreti. Ipotizzare che una riduzione dei compiti affidati alla famiglia possa migliorare le cose, non significa proporre di trasformare il paese in una comune di “senza-famiglia”. Difficile, ad esempio non considerare come potenzialmente patologico il fatto che il 73% dei giovani italiani tra i 25 e i 29 anni viva in casa con i genitori (la stessa proporzione oscilla tra il 20 e il 24 per cento in paesi come Francia, Olanda o Regno Unito) e che, anche dopo l’uscita di casa,il 45% delle coppie italiane viva a meno di 1 km di distanza da almeno un genitore. Eppure queste cifre sono il risultato del ruolo che gli italiani hanno scelto di affidare alla famiglia, come produttrice di beni e servizi, tra cui,in particolare,l’assicurazione contro la disoccupazione, l’assistenza sociale e il reperimento di un lavoro nei “paraggi” familiari.

Un ruolo che richiede la protezione assoluta del reddito del capofamiglia maschio a cui lo stato garantisce dunque il lavoro o comunque il potere d’acquisto mediante la Cassa integrazione e, nella peggiore delle ipotesi, il traghettamento senza troppi traumi alla pensione anche anticipata. Questo è il modello di Welfare che il Ministro Sacconi, in continuità con i suoi predecessori, ha deciso di potenziare durante l’ultima crisi. Ha funzionato? A nostro modo di vedere si e no. Prima di tutto l’Italia ha sofferto, in termini di perdita di reddito, molto più della media Ocse e della media europea (-5% del Pil). Solo un paio di paesi europei particolarmente esposti alla crisi edilizia, hanno fatto peggio, gli Stati Uniti hanno perso meno di noi. È vero che l’occupazione ha resistito abbastanza bene perché è stato difeso a oltranza il posto di lavoro del capofamiglia (anche se con meno ore lavorate), che hanno potuto così continuare a svolgere il loro ruolo di erogatori di welfare nei confronti degli altri membri non occupati delle loro famiglia. Ma il costo maggiore, sebbene meno immediatamente evidente, è che questi altri membri, soprattutto giovani, fanno e faranno sempre più fatica a trovare un impiego. E lo stesso è accaduto anche nelle crisi precedenti aggravando di volta in volta le prospettive delle giovani generazioni. Inoltre, quello che conta non è tanto la disoccupazione ufficiale (comunque maggiore in Italia che nei paesi scandi-navi con welfare statale), ma la “non occupazione” effettiva. Ovvero, quanti lavorano in Italia? Relativamente pochi, e molti di coloro che non lavorano, soprattutto giovani in attesa del primo impiego, non sono contati tra i disoccupati perché il lavoro non lo cercano.

È miope non vedere che anche il welfare familiare ha i suoi costi, perché danneggia le nuove generazioni, rendendo il paese meno capace di evitare o ridurre gli shock negativi e soprattutto di sfruttare le occasioni di crescita quando la crisi sarà alle spalle. Perché non pensare invece a un sistema di welfare che, favorendo una maggiore mobilità geografica (oggi meno dannosa per le relazioni familiari grazie ai migliori mezzi di trasporto), tuteli il lavoratore nel mercato, aiutandolo a riconvertirsi quando ne-cessario, invece di preservare a ogni costo posti di lavoro improduttivi?

L’immobilità geografica necessaria a mantenere vicini figli, genitori e nonni rende il paese meno efficiente, obbliga a portare il lavoro dove sono le persone e non consente di fare (anche) il contrario. Efficienza non è una parolaccia “da tecnocrati”. Efficienza significa più reddito e più reddito significa meno povertà e maggiori possibilità crescita umana e sociale. Un sistema che protegge ” solo” il lavoro e il reddito degli anziani a scapito di quelli dei giovani priva il paese della produttività e dell’inventiva dei suoi cittadini nel periodo della loro vita in cui queste sono massime.

Veniamo poi al tema di chi,all’interno della famiglia, dovrebbe assicurarne la sua funzionalità. Mentre in altri paesi donne e uomini lavorano approssimativamente lo stesso numero di ore, sommando il tempo dedicato al mercato e quello dedicato alla casa, in Italia mogli, madri e sorelle lavorano 80 minuti in più dei loro familiari maschi. E questo non soltanto perché ci sono molte donne che lavorano solo in casa, ma soprattutto perché ce ne sono molte che, “oltre” a lavorare nel mercato lavorano ” anche” in casa. Siamo noi i primi a considerare nel libro, la possibilità che questa peculiarità corrisponda alle preferenze degli italiani di entrambi i sessi. Esiste però anche la possibilità che questo squilibrio nella divisione dei compiti familiari non corrisponda alle preferenze di “tutte” le donne, almeno di quelle che si trovano a fare due lavori. E non è nemmeno escluso che ci possano essere uomini che vedrebbero di buon grado un loro maggiore coinvolgimento nella vita produttiva familiare, ma non possono farlo perché a loro viene di fatto imposto il ruolo di “bread winner”. È vero, come scrive il Cardinal Antonelli che la figura materna e paterna sono in parte complementari. Ma sono anche in parte sostituibili e non ci possono essere né complementarietà né sostituibilità se la figura paterna è assente.

Un modello più equilibrato di carichi familiari è difficile da realizzare, anche per coppie che sarebbero felici di adottarlo, perché i datori di lavoro si attendono che sia comunque la donna a farsi carico della famiglia e quindi a lavorare nel mercato con minore impegno. Le condizioni retributive e le possibilità di carriera offerte alle donne sono peggiori e inducono le famiglie ad affidare alle donne meno impegni lavorativi nel mercato e maggiori compiti familiari. Le aspettative dei datori di lavoro trovano conferma nei comportamenti delle famiglie e viceversa: il cerchio è chiuso. Per quale motivo auspicare la possibilità che donne e uomini possano scegliere più equilibrio dei carichi familiari dovrebbe implicare la disgregazione dei legami di sangue o la riduzione del ruolo della famiglia nella società italiana?

Il dissenso del cardinale e dei laici

Il libro L’Italia fatta in casa , di Andrea Ichino e Alberto Alesina è stato attaccato da molti organi del mondo cattolico italiano.
Il cardinale Ennio Antonelli in un convegno europeo sulla famiglia ha sostenuto che nel saggio «si afferma che la famiglia danneggerebbe lo sviluppo economico e sociale del paese» e che «non si prendono in considerazione i pesanti costi sociali della “Non-famiglia” ». Il cardinale ritiene inoltre che i ruoli materni e paterni siano molto diversi. Fa l’esempio del quadro di Van Gogh Primi passi, «in cui il bambino è posto tra il mondo della madre, la casa, e il mondo del padre, il campo; la madre sta con il bambino e lo protegge; il padre ha interrotto il lavoro agricoloe lo invita affettuosamente a distaccarsi dalla madre e a venire verso di sé. La figura materna e la figura paterna son complementari: l’una incarna la calda accoglienza, la comprensione, la sicurezza affettiva e il benessere; l’altra l’autorità che fa crescere verso l’indipendenza, l’iniziativa, l’autonomia, la responsabilitàetica, l’altruismo».

Marco Vitale su «Vita» accusa gli autori di essere «sicuramente favorevoli a che i meccanismi di mercato penetrino sempre di più nell’attuale assetto della famiglia italiana, e lo mutino profondamente se non lo scardinino ». Ciò appare in tante parti del libro, come quella a conclusione della trattazione sul lavoro femminile: «O si cambiano questi incentivi o le donne continueranno a lavorare poco nel mercato e troppo in casa. Ma forse è questo ciò che gli italiani vogliono. E allora non si lamentino se il Pil ufficiale è più basso della media europea: è questo il prezzo da pagare per avere tante regine della casa».

Luigino Bruni su «Avvenire» scrive che per gli autori la famiglia «è una somma di individui separati. Non si vedono rapporti, ma individui». Alla «tassazione differenziata» preferisce dunque il «quoziente familiare».
Una raffica di accuse di voler distruggere la famiglia a favore del mercato è arrivata dal Sussidiario. net, i cui opinionisti, tuttavia, in alcuni casi ammettono di non aver letto il libro.

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Spaghettate fuori dal PIL
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→  novembre 15, 2009

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Resta escluso dal calcolo l’enorme contributo delle donne nell’economia domestica. Una risorsa ma anche un modello che genera le inefficienze del «familismo amorale»

Sarà in libreria nei prossimi giorni per Mondadori il volume «L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani» di Alberto Alesina e Andrea Ichino. Ne anticipiamo uno stralcio.

di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Quando cuciniamo gli spaghetti per la cena facciamo un lavoro il cui valore non viene incluso nel conteggio statistico del Prodotto interno lordo. Se, invece di cucinare, andassimo a mangiare gli spaghetti al ristorante, il lavoro di chi li prepara e di chi ce li serve sarebbe incluso nel pil. Lo stesso accade per la pulizia della casa, per la cura dei bambini e degli anziani e per tutti gli altri beni e servizi che la famiglia produce e che potrebbero essere acquistati nel mercato aumentando il pil. Non è diversa la situazione degli spagnoli quando cucinano la paella o dei norvegesi quando pescano il merluzzo per la cena. Ma in Italia l’entità della produzione familiare non rilevata dalle statistiche ufficiali è maggiore che altrove. Possiamo, allora, sostenere che il nostro Paese, grazie a quanto le sue famiglie producono in casa, sia più ricco di quel che normalmente si pensi? E se fosse vero che produciamo in casa più di quanto prodotto dai cittadini di altri paesi, non dovremmo forse chiederci se questo abbia dei costi, ovvero se dare un ruolo così rilevante alla famiglia possa avere controindicazioni, in particolare per la condizione della donna, per il sistema educativo, per il mercato del lavoro e per la struttura del welfare state?

Nel 1956 un politologo dell’Università di Chicago, Edward Banfield, poi passato ad Harvard, decide di studiare le cause del ritardo di sviluppo nel Sud d’Italia. (…) Da questa esperienza deriva uno straordinario libretto di un centinaio di pagine intitolato Le basi morali di una società arretrata. Queste cento pagine, talvolta anche divertenti, ci aiutano a capire il Sud d’Italia molto più delle migliaia di pagine scritte da economisti, storici, politologi e sociologi sulla «questione meridionale». La spiegazione dell’arretratezza del Sud d’Italia secondo Banfield deriva dalla struttura della famiglia e dal suo rapporto con la società. Ma a nostro avviso questo libro ha molto da insegnare anche su tanti altri problemi del nostro Paese, ben al di là di Montegrano e della Questione meridionale.

Vivendo a Montegrano, Banfield si convince che l’arretratezza economica, politica e sociale del Sud risiede in quello che lui definisce il «familismo amorale». Con questo termine vuole cogliere il comportamento basato sulla convinzione che ci si possa fidare esclusivamente dei propri familiari; non solo, ma che ci si debba aspettare che tutti gli altri a loro volta facciano altrettanto, ossia si fidino solo dei propri consanguinei. Quindi, atteggiamenti collaborativi fondati su un reciproco rispetto e fiducia possono esistere solo all’interno della famiglia. A Montegrano ci si deve aspettare di essere truffati dagli estranei, cioè da chi non appartiene alla propria famiglia. E di riflesso, la risposta al timore di una possibile truffa è un atteggiamento altrettanto truffaldino. Una società basata sul familismo amorale si trova quindi in un equilibrio pessimo: nessuno collabora e si fida degli altri perché nessuno si aspetta che gli altri lo facciano e offrire collaborazione e fiducia significa la certezza di essere truffati.

Si tratta proprio di un equilibrio nel senso più tecnico di questo termine: ovvero questa è una configurazione sociale stabile nel senso che a nessuno individualmente conviene cambiare atteggiamento, a meno che non lo facciano anche gli altri, tutti insieme, e con la certezza che nessuno continui negli atteggiamenti truffaldini.
Non a caso, le cosche mafiose si autodefiniscono «famiglie». La norma in queste organizzazioni è che ci si può fidare, appunto, solo dei membri della «famiglia», mentre da qualunque altra persona non appartenente alla «famiglia» ci si devono aspettare solo trabocchetti e tradimenti e quindi bisogna agire di conseguenza. In particolare, per prudenza, conviene prevenire il tradimento altrui con quello proprio.
Banfield dimostra come le conseguenze del familismo amorale siano devastanti per l’economia e la società di Montegrano, soprattutto perché impediscono la creazione e la gestione di beni pubblici fruibili da tutti, che favorirebbero la crescita economica e sociale del paese. (…)

Una famiglia molto unita che produce beni e servizi necessita di una figura che mantenga l’unità familiare e svolga il ruolo di fulcro della casa. Questa figura è tipicamente la donna, moglie, sorella e madre. Ne consegue che dove i legami familiari sono più forti la partecipazione al lavoro femminile nel mercato è più bassa perché la donna è più impegnata in casa. Non per nulla nel Sud d’Italia le donne lavorano meno nel mercato e i legami familiari sono più forti, qualche volta addirittura «perversi», come nel caso del familismo amorale di Montegrano. In un Paese che scelga di dare un ruolo importante alla famiglia, una persona che svolga la funzione di fulcro di questa istituzione è forse necessaria: ma perché deve essere necessariamente la donna a svolgerla?
Potrebbe essere che alle donne italiane piaccia così. Oppure che non piaccia affatto, ma che per caratteristiche genetiche e culturali non rapidamente modificabili siano più adatte ed efficienti degli uomini nella produzione familiare. Oppure ancora potrebbe far comodo ai mariti, ai figli e ai fratelli che le donne non lavorino o che lavorino relativamente poco nel mercato e moltissimo a casa.

In questo caso quindi le donne sarebbero costrette a questo ruolo da un maggiore potere contrattuale degli uomini. Senza stravolgere e indebolire l’intensità dei legami familiari a cui gli italiani tengono in modo particolare, non sarebbe preferibile che gli uomini partecipassero di più a sostenere la famiglia nelle sue funzioni? In Italia molti uomini se ne guardano bene, delegando tutti i lavori di casa alle loro mogli, madri e sorelle.

Forse proprio all’interno della famiglia, più che a causa della discriminazione nel mercato del lavoro, si determina lo squilibrio di ruoli che osserviamo in tutti i Paesi e soprattutto in Italia.

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