Le radici nella cenere della Shoah

marzo 4, 2014


Pubblicato In: Articoli Correlati

recensione di Stefano Jesurum pubblicata sul Corriere della Sera

Chi, parecchi anni fa, amò le storie di Raffaele, Zaccaria, Isacco e Dolcina ambientate nel ghetto astigiano durante il periodo che va dall’età napoleonica alla formazione dell’unità d’Italia — squisitamente raccontate da Guido Artom ne I giorni del mondo — guarderà oggi con interesse e curiosità al saggio di Maria Luisa Giribaldi e Rose Marie Sardi Bele sì (proprio qui). Ebrei ad Asti (Editrice Morcelliana, pp. 256, e 22). Curiosità e ricerca storica di livello, ma senz’altro anche qualcos’altro.
Giustamente Franco Debenedetti nella nota introduttiva cita Walter Benjamin: «Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una “debole” forza messianica, a cui il passato ha diritto». E che po’ po’ di passato. La presenza degli ebrei ad Asti risale alla fine del Trecento. Arrivarono, come in altre zone del Piemonte, dalla Francia e dalla Germania fuggendo da persecuzioni e cacciate. Stili di vita, interessi economici, melodie sinagogali, abitudini famigliari diedero corpo a un nucleo coeso, addirittura a un loro rito detto, Appam (dalle iniziali ebraiche di Asti, Fossano e Moncalvo), derivato dalle tradizioni di preghiera e di studio diffuse anticamente nella Francia del nord e simili a quelle tedesche-ashkenazite. La questione del rito e della cantillazione — parlando di vicende ebraiche nostrane — non è per nulla secondaria: significativo quindi il fatto che la successiva emigrazione degli judíos spagnoli e portoghesi (sefarditi, giunti in loco nel XVI secolo) abbracciò anch’essa le forme del culto praticate dai correligionari a cui si erano uniti. Ed ecco la comunità di Asti (o università, come si chiamavano i nuclei ebraici) divenire paradigma di convivenza tra le sue diverse componenti. Come è accaduto per moltissime comunità italiane, oggi Asti non esiste più. O meglio: intorno alla sua splendida sinagoga, all’antico cimitero e al museo si muovono le ombre dei ricordi, che prendono forma in termini di affetto e legame con una ascendenza che si tenta di riportare in vita almeno nei giorni delle solenni ricorrenze. Dopo la Shoah non c’è stata più storia. Giribaldi e Sardi quel «prima» lo documentano passo dopo passo, fin nei particolari di un microcosmo di provincia che irradiò nel tempo la storia nazionale (si pensi a Isacco Artom, uomo di fiducia di Camillo Benso conte di Cavour, nonché primo ebreo d’Europa a occupare un alto incarico diplomatico al di fuori del proprio Paese). Passo dopo passo, dicevamo. Dai rapporti con la maggioranza cristiana e il potere cittadino alle false accuse (anche lì) di omicidio rituale, dalle eminenti figure rabbiniche alla Confraternita degli zelanti, alla chiusura nel ghetto, al censimento del 1761, all’età napoleonica; e avanti fino al restauro della sinagoga, all’emancipazione e all’integrazione. «Nel censimento del 1911 risultarono residenti 199 ebrei: a causa dell’emigrazione, negli ultimi cinquant’anni la comunità si era più che dimezzata, rimanendo carente di giovani. Dopo la prima guerra mondiale le difficoltà aumentarono al punto che divenne sempre più arduo sopperire, con le ormai esigue disponibilità finanziarie, alle numerose spese in bilancio relative al culto, all’istruzione, all’assistenza dei bisognosi, alla custodia e manutenzione della sinagoga e del cimitero, nonostante molti ebrei astigiani disponessero legati testamentari o erogazioni annuali a favore della comunità». Torniamo così a quanto scrive Franco Debenedetti, perché è — credo — l’intimo messaggio del libro. L’origine locale, unico legame con il proprio passato, unica cosa che per alcuni «li fa (essere? sentire? rappresentarsi? ricordarsi?) ebrei (…) Lo stimolo per approfondire le ricerche e arricchire i racconti. Perché lì stanno le radici del platano, le memorie e le culture da tramandare (…) Molte sono le strade che hanno preso quelli che sono usciti dalle tante Asti d’Italia e del mondo. Ci sono quelli che ebrei lo sono nel rispetto della ritualità, nella conoscenza della lingua, nell’osservanza delle norme; e ci sono quelli secolarizzati. Ci sono quelli per cui l’essere ebreo è diventare israeliano, altri per cui è avere il mondo come patria. Ci sono ortodossi e riformati. Ci sono cattolici che restaurano la sinagoga, ed ebrei orgogliosi di non averne una (…) Per Lacan, l’ebreo è quello che sa leggere, ed è perché l’ebreo Freud sa leggere che anche noi sappiamo leggere, abbiamo iniziato a leggere, siamo stati iniziati a leggere altrimenti: l’analista segue le vie del midrash , in analisi si leggono, si recitano, si interpretano le Scritture».

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