Lacrime e banche

maggio 26, 2008


Pubblicato In: Varie

larepubblica-affarifinanza-logo
Non è lo Stato che deve decidere se la banca guadagna

Caro Direttore,

la frase sulle sofferenze da infliggere a petrolieri e banchieri, pronunciata dal Ministro Tremonti nella trasmissione di Lucia Annunziata, la si può considerare voce dal sen fuggita; ci si può astenere dal darne interpretazioni psicoanalitiche. Ma difenderla come lei fa nel suo articolo di lunedì scorso su Affari e Finanza, perché?

Che cosa vuol dire che un’azienda o un settore industriale guadagna “troppo”? Se quando un’azienda guadagna poco, gli azionisti piangono, e se quando guadagna “troppo”, li fanno piangere i politici, dove porre il confine? Chi lo stabilisce? Sarà per gli utili aziendali come per il merito dei dipendenti statali, il cui punteggio può variare da 3 a 9 ma che è bene che sia sempre 6? La redditività elevata di un settore industriale segnala al mercato un’opportunità; ne vorranno approfittare altri operatori, investiranno, aumenterà la concorrenza. La blocca invece, un Governo che entra a piedi giunti nel mercato, e ottiene risultati opposti di quelli desiderati. Se un’azienda guadagna molto, meglio per lo Stato che incassa più imposte, “meglisssimo” per lo Stato che è anche azionista con quote importanti, come nel caso dell’ENI.

Utili eccessivi in un settore industriale potrebbero esser dovuti al regime fiscale stesso: forse è questo il caso delle deducibilità degli interessi per le banche. La redditività di un settore – banche piuttosto che automobili – dovrebbe dipendere solo da fatti di mercato (prezzo, qualità, prospettive), l’arbitraggio fiscale dovrebbe essere scoraggiato. Tutte le imposte sono distorcenti, correggerle è ciò che ci si aspetta da una buona amministrazione fiscale. Qui invece il proposito dichiarato, che lei sembra condividere, è di introdurre deliberatamente criteri distorcenti. In nome dell’ “equità”, beninteso..

Il “troppo” può segnalare situazioni monopolistiche, comportamenti collusivi, abuso di posizioni dominanti. In quel caso è davvero “troppo”. Ma le distorsioni nel mercato si correggono eliminandole, non tassandole. Perché in quel caso lo Stato si fa complice dell’abuso, reclamando solo per sé una parte del maltolto. E lo può fare perchè ha il monopolio della “moralità”. Ma così esautora proprio coloro che per legge hanno devono essere “garanti della concorrenza e del mercato”. Si chiamano autorità indipendenti: indipendenti da chi, se non dal Governo? E come fanno a esserlo se il Governo, diffidandone, si sostituisce a loro quando lo crede opportuno?

Tutte cose ben note, e Lei si chiederà perché Le chieda ospitalità per ripeterle. La realtà è che questo episodio rimanda a un problema politico molto attuale. Alla luce del principio tremontiano “il mercato dove possibile, lo Stato dove necessario” , queste critiche hanno buone probabilità di essere messe nel novero del “mercatismo”. Una parola che il centrodestra può manovrare con disinvoltura, mentre sospinge il centrosinistra a naufragare sulle spiagge di una vecchia socialdemocrazia. Per questo, per liberarsi dal piombo politico dello statalismo. il centrosinistra, pur in mezzo a contraddizioni (perfino nelle lenzuolate di Bersani), e a prezzo di lacerazioni, ha cercato di fare accettare i principi di mercato merito concorrenza. Dove troverà l’ancoraggio che le eviti di regredire a sinistra e le consenta di conquistare consensi al centro, se il suo avversario deride la sua fede come “mercatismo”?

C’é poi un altro problema: chi resterà a parlare di mercato e concorrenza, non nel senso di quanto è possibile, ma di quanto è necessario, necessario al Paese e non a una parte politica? E questo, caro Direttore, penso che sia un problema che riguarda anche il suo giornale. Sarà interessante trovarvi, numero dopo numero , la risposta.

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: