La ribellione del '68? Era scritta nella Costituzione

gennaio 17, 2008


Pubblicato In: Giornali, Vanity Fair

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da Peccati Capitali

Nel 2008 saranno passati quaranta anni dal “sessantotto”, e sessanta dalla promulgazione della Costituzione. Saremo sommersi da ricostruzioni, analisi, valutazioni: c’è da scommettere che, non solo il ’68 quantitativamente batterà il ’48 con punteggio tennistico, ma soprattutto che saranno rievocazioni separate. E invece ci sono buone ragioni perchè ci sia qualche relazione tra i due fatti.

E’ vero, il sessantotto esplose in tutto il mondo occidentale, fu la rivolta libertaria di una generazione contro schemi che improvvisamente erano apparsi incapaci a comprendere le novità che si facevano largo: in tema di libertà individuali, di sessualità, di metodi di insegnamento, soprattutto di rapporti con l’autorità. Ma solo in Italia il sessantotto durò un decennio; in Italia più che altrove “l’imagination au pouvoir”non é stata capace di sostituire le vecchie regole con nuove forme di coesione sociale; e in nessun Paese come in Italia le degenerazioni terroristiche ebbero tale gravità ed estensione. La doppia ricorrenza dovrebbe dunque essere l’occasione per indagare il perché di queste anomalie italiane, ponendo attenzione più agli assetti istituzionali che alle dinamiche sociali. Dal compromesso tra cattolici e socialcomunisti, che mortificò le istanze liberali, e che è alla base della nostra Costituzione, si sviluppò un conformismo moralista più compatto, pervasivo e resistente di quelli contro cui insorsero gli altri “sessantotto”. Il regime assembleare voluto dai padri costituenti per scongiurare ritorni autoritari produsse governi deboli, incapaci di por fine alle mediazioni al ribasso tra partiti e di offrire soluzioni di modernità.

Il tema continua ad essere attuale oggi che il rischio non è quello di una esplosione, ma piuttosto di una implosione, di un generale ripiegamento in cui ciascuno, per conto proprio, ricerca spazi privati tra le maglie di uno Stato invadente e discriminatorio; oggi che il privato non è più politico, perché la politica viene sentita lontana e incomprensibile. Anche questo, come quarant’anni fa, ha a che fare con la Costituzione. Fin dal suo articolo 1, essa recita che “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, mentre le aspirazioni e i comportamenti di larga parte degli italiani sono lì a dimostrare il contrario. Proprietà e attività economiche private continuano ad essere condizionate da non meglio definiti principi sociali. E si potrebbe continuare a lungo. Già è difficile accordarsi per varare una legge elettorale, figurarsi per modificare la Costituzione. Ma quando vediamo organizzare movimenti per difenderne la sacralità, anzi per rendere ancora più difficile il modificarla, viene da chiedersi se anche in questo caso non ritorni di attualità uno slogan di 40 anni fa: “siamo realisti, chiediamo l’impossibile”.

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