Il Deragliamento

marzo 19, 1998


Pubblicato In: Varie


Il governo rincorre il treno per l’Europa ma rischia di perderlo sui binari italiani. Presi dalla discussione sui licenziati, si continua a rinviare le scelte strutturali necessarie. Il piano c’è: da Buenos Aires a Berlino mezzo mondo lo sta attuando

Chi ha pensato di poter paragonare la vicenda dei quattro ferrovieri licenziati dalle Ferrovie dello Stato ai 61 della Fiat nel 1980, ha dovuto rapidamente ricredersi. Il congelamento dei licenziamenti da parte dell’azienda da una parte conferma che esiste un grande macigno da rimuovere: quello della licenziabilità nel pubblico impiego. Ma, dall’altra, consente finalmente di mettere a fuoco il vero problema delle Fs italiane: che è di tutt’altro ordine.

Anzi, se una cosa va detta a questo proposito, è che personalmente ho provato un vero sconcerto di fronte a come la stampa, per due settimane, ha affrontato la questione. Pagine intere sui licenziamenti. Il solito condimento di vicende giudiziarie, vecchie e nuove. Non una parola sulle ragioni che hanno reso questi esiti prevedibili e scontati. A ragionare delle Fs in termini di azienda, di costi e ricavi, sulla stampa italiana e nel dibattito pubblico (penso per esempio alla puntata, una settimana fa, della trasmissione Moby Dick di Santoro dedicata al tema) si passa per ingenui. Ebbene, difendo il mio diritto all’ingenuità. Cerchiamo di capire qual è il vero problema delle ferrovie in termini di azienda. Lasciando da parte l’Alta velocità, che è un capitolo a parte, anch’esso con tutta la sua gravità condita di ritardi, disordine e inchieste. Parliamo invece delle Fs partendo da due questioni. La prima ha a che fare con il principio del comando. A prescindere dai giudizi personali su Schimberni, Ligato, Necci, Cimoli, Burlando, e da quel che procure e politici pensino in proposito. 20 mila miliardi di investimenti e 120 mila dipendenti sono due ragioni più che sufficienti a spiegare perché il vertice delle Fs può sopravvivere solo se è debole, sia che debba negoziare un appalto che concludere un accordo sindacale. Di qui non si esce, se non a patto di cambiare il gioco. Le possibilità che questo sistema si riformi dall’interno sono pressoché nulle. La sola speranza è che da Villa Patrizi, sede della direzione delle Fs, la parola passi a Bruxelles, e che dai ripiani annuali delle perdite in Finanziaria si passi ai vincoli del commissario europeo Kinnock. La seconda questione ha a che fare invece con l’essenza della missione dell’azienda. Il trasporto ferroviario non è un servizio pubblico. Basta leggere qualsiasi manuale di economia del primo anno. Un bene è pubblico quando non è possibile escludere alcun soggetto dal beneficiarne, e quando il suo costo d’uso marginale è nullo. Lo è per esempio la difesa nazionale, dato che non si può escludere nessuno dal trarne vantaggio, e non si può far pagare a ciascuno il beneficio che ne ricava. Così non è per i trasporti: gli utenti possono essere esclusi dal consumo tramite prezzi, tariffe, pedaggi; e dato che si verificano fenomeni di congestione, i costi marginali sono significativamente superiori a zero. Il diritto alla mobilità per gli italiani è sta L to garantito da strumenti di mercato: la Vespa e poi la Seicento. Se il trasporto su rotaia non è un servizio pubblico, ci sono però molte ragioni che giustificano l’intervento pubblico.

Ragioni di natura economica, perché le reti di trasporto sono un classico esempio di monopolio naturale. E ragioni di natura sociale. Che però nel tempo si sono dilatate fino a diventare ben altra cosa che garantire a tutti la mobilità a prezzi accessibili. Il fine politico delle traversine di Stato è diventato solo quello del consenso, elettorale, aziendale, sindacale. Tutta l’amministrazione pubblica italiana, la scuola, gli ospedali, le poste, ha visto prevalere l’interesse di chi fornisce il servizio rispetto a quello di chi ne vorrebbe fruire. Di questo principio le Ferrovie sono la Stalingrado d’Italia. Proprio a seguito di questa degenerazione, in tutto il mondo ci si è posti il problema di ridefinire la ragione economica della presenza pubblica. Certo, i binari, i sistemi di segnalamento e sicurezza costituiscono un monopolio naturale, comportano costi talmente elevati che a nessuno può venire in mente di duplicarli. Ma questo non vale per i servizi. Di qui l’affermarsi del principio della separazione. «La separazione tra rete e servizio scrive Gerardo Marletto di Federtrasporti serve a impedire che il monopolio naturale della rete si propaghi anche alla produzione di servi.

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