Fu colpa di Marini o Bertinotti? Seguiremo Schroeder o Blair?

maggio 26, 2005


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Otto anni dopo

Ciò che non si riesce a scacciare, nella vicenda innescata dallo “strappo” della Margherita sulla lista unitaria, è la sensazione di un passato che, irrisolto, ritorna. La si potrebbe perfino leggere come il riproporsi di un’antica questione: fu Bertinotti o fu Marini a provocare la caduta di Prodi nel 1998?

Vedere la causa in Bertinotti significa riconoscere la debolezza intrinseca dell’artificio tecnico che diede il successo all’Ulivo, ma non resse alle scelte politiche che quotidianamente si pongono a chi governa, e dunque la necessità di sostituire alla desistenza un accordo politico, l’Unione appunto. Vedere invece la causa in Marini significa mettere in primo piano la necessità di esercitare un controllo sulle componenti della maggioranza, incominciando da quelle che ne costituiscono il cerchio interno, in particolare sulla Margherita, e quindi di sussumere le loro identità politiche in un soggetto che fin dal marchio di fabbrica garantisca affidabilità, l’Ulivo appunto.

Per carità, non si disconoscono importanza e peso del passato: ma sarà anche il caso di ricordarsi che, alle prossime elezioni, saranno dieci anni dal successo dell’Ulivo nelle urne e otto dalla caduta di Prodi in Parlamento. Nel frattempo, di cose ne sono successe! Pensiamo anche solo all’Europa: dove con l’euro si è raggiunto il punto più alto del processo di unificazione; e dove si è poi perso gran parte del sentimento unitario, – comunque vadano i referendum sul trattato costituzionale in Francia e in Olanda. Dieci anni in cui l’Europa – e l’Italia più degli altri – ha perso la strada della crescita e della competitività. Dieci anni in cui sono falliti Berlusconi e Schroeder, Jospin e financo Chirac. In cui l’unico, tra i maggiori, ad aver vinto è stato Tony Blair.

Proviamo a partire di qui, dalle difficoltà europee e dalla crisi italiana: cosa ne pensa Prodi? Cosa ne pensa l’Unione, il cui simbolo sarà sulla scheda e, lista o non lista, prenderà tutti i voti del maggioritario ed eleggerà quasi il 90% dei parlamentari? I partiti che compongono la Federazione, e che al Brancaccio hanno solennemente nominato Prodi loro leader, la pensano in modo molto diverso da quelli che sono fuori dalla Federazione (si pensi ad esempio sulle più recenti posizioni dei DS sull’Iraq, e si tace, per carità di patria, sull’elenco completo). E’ condividendo le identità politiche dei partiti della Federazione, ricco delle loro elaborazioni ideologiche oltre che forte del loro peso elettorale, che Prodi dovrà partire per trascinare gli alleati dell’Unione, e guidarla in senso inequivocabilmente riformista. E per riformista, tanto per vedere se ci intendiamo, io penso alle riforme annunciate e attuate da Blair, non a quelle promesse, poi disattese e alla fine rinnegate da Schroeder. Dal modo in cui articoleremo le nostre proposte riformiste, dipende una cosa ancora più importante del nostro successo alle elezioni: la nostra capacità di risolvere i problemi del Paese. Che, sarà bene non dimenticarlo, non sono solo Berlusconi e il berlusconismo.

Il problema della lista unitaria va visto in quest’ottica: rende più forte la linea riformista, nel senso che ho detto? Rende più forte Prodi nel difenderla con gli alleati e nell’affermarla al Paese? Ovvio che la risposta é sì a entrambe le domande. Ma le risposte lapalissiane sono poco più di una tautologia. Non dicono che a dar forza non é l’unità su un simbolo, ma quella sul profilo, sull’identità politica. E se non c’è unità politica, a surrogarla non bastano neppure le liane, altro che gli ulivi. Non dicono che ciò che interessa al Paese è l’identità politica su cui chiediamo il voto. Perchè Il Paese si sente fermo e chiede qualcuno che gli dia una visione del suo futuro. E considera solo strumenti le nostre archittetture e le nostre bandiere.

“Dopo l’assemblea del Brancaccio, il nulla”, scriveva ier l’altro Enrico Morando. Non si sono visti neppure i segnali di lavori in corso. Lavori ferverebbero nella Fabbrica, ma i resoconti che se ne sentono non eliminano il sospetto che si attenda più a confezionare tesi che a definire identità politica e a impegnarsi su scelte di fondo. Dietro gli strappi ci sono anche organici da riempire, ambizioni da soddisfare, passati da ricompensare e futuri da spalancare. Tutte cose, come i ricordi del passato, che appaiono zavorra solo se manca il motore del progetto politico.

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