Fiat-General Motors: perché piace alla Cgil

marzo 30, 2000


Pubblicato In: Giornali


“Nella vicenda Fiat Gm, ha avuto un ruolo importante la consapevolezza di appartenere a una comunità e di assolvere anche a un dovere sociale. Certamente per una public company quei valori non avrebbero contato”. Se avesse letto questa frase di Sergio Cofferati (Era ciò che aspettavamo, La Stampa del 15 Marzo) un sorriso divertito avrebbe illuminato gli occhi vivaci del mio amico Mark Roe. In quella frase Mark che insegna diritto societario alla Columbia Law School, ed il cui Manager forti, azionisti deboli (ed. Il Sole 24 Ore) é famoso anche da noi, tanto da essere più citato che letto avrebbe trovato conferma alla sua tesi dalla incompatibilità tra public company e socialdemocrazia, e delle ragioni per cui in Francia e Italia persiste il modello del capitalismo familiare.

In tutte le società per azioni il problema della governance è evitare che chi detiene il controllo dell’impresa non si appropri di vantaggi a scapito degli altri azionisti. Nelle società ad azionariato diffuso il rischio per gli azionisti passivi é che il management si allei con i dipendenti: contratti sindacali generosi, assunzioni ridondanti, investimenti senza guardar troppo per il sottile. Proprio la direzione in cui, nelle socialdemocrazie, spingono leggi, politica, consenso sociale, potere sindacale. In questa situazione i risparmiatori pensano che i loro risparmi sono meglio protetti dal capitalismo famigliare: insieme ai loro interessi faranno anche i miei, pensano, e gli affidano i propri risparmi. Questa é, secondo Roe, la ragione perchè da noi finora non si sono formate grandi società ad azionariato diffuso.

Negli ultimi anni, i mercati azionari globalizzati, l’attivismo degli investitori istituzionali, le stock option, hanno aumentato la pressione sui manager: anche da noi la proprietà diffusa finirà per affermarsi. E’ questo che teme Cofferati, é per questo che offre pubblico riconoscimento all’avversario di sempre? C’é da dubitarne, egli sa bene che da noi di public company si continua solo a parlare. A stargli a cuore non sono le sorti non delle grandi famiglie, ma quelle della concertazione, soprattutto dopo che in Confindustria, con Antonio D’Amato, ha vinto una maggioranza non certo propensa alla mistica della concertazione. A questa pensa quando esalta, del capitalismo famigliare, la sensibilità “all’idea della propria funzione, al radicamento sul territorio”.
Ma così balza in evidenza una contraddizione: perchè la public company è stata il modello che i governi hanno dichiarato di assumere nella privatizzazione delle maggiori imprese. Voleva questo modello Romano Prodi quando, capo dell’IRI, vendette Comi e Credit; per Telecom, il nocciolo duro avrebbe dovuto accompagnare solo la transizione all’azionariato diffuso; il modello public company resta quello di riferimento per le pseudo – privatizzazioni di ENI ed Enel. Sappiamo invece come andò a finire: Prodi si considerò beffato da Mediobanca per le sue banche, e pare non abbia molto apprezzato l’iniziativa di Colaninno su Telecom; e quanto al gas e all’elettricità quello della public company resta uno sfondo lontano, lontano….
Questo non avviene per l’onnipresenza dell’Avvocato, per l’aggressività dell’Ingegnere, per la cupidigia del terribile vecchio di Via Filodrammatici, ma per effetto di una contraddizione. Dato che la concertazione contribuisce certamente a formare quel consenso sociale di cui parla Roe, una politica che da un lato prenda la concertazione come propria pietra angolare, dall’altro auspichi il formarsi di public company, è in contraddizione con se stessa. La frase del massimo leader sindacale la illustra in modo esemplare.

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