Democrazia d’impresa

luglio 23, 1996


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Mentre è diventato stucchevolmente ripetitivo l’interrogarsi sul perché le nostre piccole imprese non diventano medie e le medie grandi, constatare il limitatissimo numero di grande imprese multinazionali italiane, recriminare sulla debolezza del nostro mercato mobiliare, incolpando il regime fiscale, o rinvenendo remote origini culturali, si stenta perlopiù a riconoscere la vera causa: i limiti del sistema di governo societario.

Lo sviluppo capitalistico presuppone la separazione tra proprietà e controllo dell’impresa: se così non fosse, l’allocazione del controllo sarebbe vincolata alla allocazione della ricchezza. Ma questa separazione genera conflitto potenziale tra interesse dell’imprenditore e interesse dell’investitore. Gli investitori devono quindi essere in grado di esercitare una funzione di supervisione dell’operato del management; deve cioè esistere una concorrenza nel mercato del controllo.
La tradizionale opposizione tra i due capitalismi, osserva Fabrizio Barca, quello renano e quello anglosassone, non è solo tra due modelli di controllo societario, l’uno basato sulla banca, l’altro sul mercato, quanto tra due modelli di supervisione, l’una esterna- di mercato e giudiziario- l’altra interna – bancaria e politica.

L’Italia, anomala rispetto sia al modello banco-centrico che a quello mercato-centrico, lo è anche per i sistemi di supervisione. Essi sono interni, contrattuali, e consentono agli imprenditori il controllo senza sostanziale compensazione per gli investitori: relazioni familiari o di coalizioni basate sulla fiducia; forme contrattuali (società in accomandita, clausole di prelazione o di gradimento, patti di sindacato); gruppo piramidale; le regole vigenti nell’esteso sistema delle industrie di stato.
Questi strumenti hanno avuto un ruolo positivo nello sviluppo della nostra economia, ma ne hanno pure segnato il limite.
Lo strumento della fiducia è servito a creare il tessuto della piccola e media imprenditorialità e quello della coalizione a formare la grande impresa, ma è di impedimento alla crescita; i gruppi piramidali hanno supplito alla cronica carenza di capitali, ma non hanno impedito crisi e gravi errori di conduzione aziendale; l’industria di stato ha consentito di mettere in gioco nuovi manager, ma questi sono diventati collusi con i soggetti politici che avrebbero dovuto supervederli, ha dotato il paese di infrastrutture moderne, ma queste hanno creato zone di protezione monopolistica anche fuori dall’ambito originario.
Nella cultura economica del paese, perfino nei luoghi del suo più alto sacerdozio, prevale una sfiducia di fondo nei meccanismi di mercato, si pensa che le sue evoluzioni richiedano di essere governate. Lo si è visto nel caso delle proposte di privatizzazione delle banche possedute da Fondazioni: l’opposizione più seria non è formata tanto da chi non vuole perdere il potere connesso alla proprietà della banca, ma da coloro che condividono sì il fine ultimo, a patto che questo sia il risultato di un processo guidato e controllato. E la stessa sfiducia si riscontra in chi, pur paladino del mercato e della concorrenza, ha difficoltà a riconoscere nella scalabilità delle imprese uno dei più potenti strumenti per l’efficienza del sistema.
Se questa è la cultura prevalente nel paese, è alla classe imprenditoriale stessa che ci si deve rivolgere per attendersi una riforma dei sistemi di governo proprietario. Facendo leva sui suoi interessi.
Innanzitutto osservando che proprio tecnologie e globalizzazione consentono ora ai risparmiatori di spostare i propri capitali là dove maggiore è la protezione degli azionisti, determinando una nuova forma di concorrenza, quella basata sull’efficienza dei sistemi per il governo societario.
Ma è soprattutto con riferimento alle privatizzazioni che emerge la contraddizione tra il nuovo ambiente economico in nome del quale le si reclamano ed il permanere dell’attuale sistema di governo societario. Non si può chiedere che si restituisca all’area privata tanta parte dell’economia senza pensare che ciò comporti anche la ridefinizione delle regole per il mercato del controllo e per la supervisione.
Non si può polemizzare con gli interessi corporativi che chiedono di mantenere in vita le conglomerate di stato senza rimettere in discussione l’evoluzione della struttura piramidale. Non si può contrastare il disegno di quotare immense public company, perché destinate ad essere controllate dal management, senza riconsiderare la funzione della scalabilità per l’efficienza. Non si può polemizzare contro gli inauditi poteri che la nostra legislazione attribuisce alle golden share, senza rimettere in discussione gli altri meccanismi che perpetuano il controllo su base fiduciaria.
Non si può soprattutto reclamare nuove libertà per l’impresa, una ridefinzione dei rapporti tra lavoro e impresa, nuovi modi di investire il risparmio per provvedere al proprio futuro, nuovi confini tra obblighi dello stato ed iniziativa individuale per proteggersi dalla malattia e dalla vecchiaia, senza affrontare il tema del controllo dei luoghi in cui si produce la ricchezza che potrà essere redistribuita.
Quando insomma si parlerà di costituzione economica, non si potrà farlo senza prendere in considerazione i temi della supervisione societaria e del mercato del controllo. Non si può perché l’impresa, al suo interno ed al suo esterno, ha bisogno di consenso. E questo non si ottiene solo mandando al potere un governo amico dei sindacati.
L’agenda è pronta da tempo: riforma degli organi societari, doveri fiduciari, obblighi informativi, deleghe di voto, piani di gruppo, governo delle Fondazioni, procedure concorsuali, separazione fra mezzi di comunicazione di massa e industria. Le privatizzazioni erano la grande occasione per concordare ed avviare un processo che avesse due capisaldi. Da un lato un rafforzamento della legislazione e dei poteri antitrust: partire dallo smantellamento dei monopoli di stato per investire anche le altre aree protette dell’economia; dall’altro la definizione di regole di corporate governance: adeguare i tradizionali modelli societari, familiari e coalizionali, alla nuova dimensione dell’attività economica da gestire.
La visione pessimista è stata già descritta: tre anni e 30.000 miliardi di privatizzazioni, non hanno costituito l’occasione per disegnare e sperimentare le nuove forme di governo societario di cui il capitalismo italiano ha bisogno.
La visione ottimista è quella di chi considera che, come l’entrata nella Seconda Repubblica, anche la riforma delle regole di corporate governance possa avvenire non per il trauma di una crisi. Per riuscirci tutti devono giocare la loro parte: lo Stato, che deve offrire strumenti e portare l’onere dei costi di coordinamento; imprenditori ed investitori, nella lungimirante considerazione dei propri interessi.

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