Con la golden share il mercato resta fermo

agosto 20, 1995


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


Perché mai le modalità delle privatizzazioni dovrebbero essere materia di interesse solo del ministro del Tesoro, delle grandi banche, dei maggiori poteri economici? Le privatizzazioni dovrebbero diventare l’occasione per creare un mercato finanziario, in cui gli azionisti decidono con il loro voto la riallocazione dei diritti di proprietà, e sanzionano il comportamento degli amministratori. Ma allora del processo devono essere investiti anche i cittadini, che di quel mercato sono i potenziali protagonisti: questo il significato del referendum sull’abolizione della golden share, le cui firme si stanno raccogliendo.

La golden share è un’azione speciale, a cui sono attribuiti particolari diritti: i governi se ne riservano la proprietà per evitare l’eventualità che la transizione da pubblico a privato possa avvenire in modi contrari all’interesse collettivo, quali il riformarsi di monopoli, o il passaggio del controllo in mani straniere senza adeguate garanzie. Ma nel nostro caso assolutamente abnormi sono i poteri che il Tesoro si è riservato: scegliere gli acquirenti, obbligare a vendere, sottrarre all’assemblea dei soci diritti fondamentali garantiti dalla legislazione societaria. E mentre in Inghilterra la golden share ha validità limitata nel tempo (e il governo inglese vi ha recentemente rinunciato) da noi la cosa è lasciata nel vago.
Una siffatta golden share rischia non solo di diminuire l’ attrattività e quindi il valore delle aziende da privatizzare (chi vuole avere un socio così onnipotente?), ma di vanificare molti dei vantaggi della liberalizzazione dei settori di pubblica utilità. Da un po’ di tempo si fa un gran parlare del meccanismo del price-cap che dovrebbe essere imposto dall’immancabile Autorità, ossia della quota dell’aumento di produttività di cui le aziende devono far beneficiare gli utenti. Perché ciò non significhi il ritorno ai prezzi amministrati, al vecchio calmiere glorificato da un nome alla moda, bisogna che l’Autorità abbia conoscenze tecniche ed economiche almeno pari a quelle di cui le aziende dispongono, ma che hanno interesse a render pubbliche con gran parsimoni a.
I grandi monopoli di Stato spendono centinaia di miliardi l’anno in pubbliche relazioni, di cui una parte va a influenzare anche istituti di ricerca e in generale chi forma la pubblica opinione. L’Autorità può sperare di acquisire le informazioni necessarie solo se esistono più aziende in concorrenza tra loro: ciò che non si dà nel caso dei monopoli naturali. Là dove non ci può essere concorrenza nella fornitura di beni o servizi, la spinta all’efficienza è affidata alla concorrenza nella proprietà delle aziende, alla possibilità che chi ritiene di saper svolgere lo stesso servizio in modo mi gliore possa sostituire la proprietà (e cambiare il management) E ciò che sta avvenendo in Inghilterra del settore elettrico a qualche anno dalla sua privatizzazione; ciò dimostra la validità del sistema e non, come qualcuno ha voluto sostenere, il suo fallimento.
Perchè le forze del mercato e della concorrenza possano giocare a favore degli utenti, bisogna che funzionino anche i mercati dei capitali; la presenza della golden share, con i diritti a essa collegati, impedisce il funzionamento di questo meccanismo, è un insormontabile ostacolo alla liberalizzazione. Per questo un referendum che miri a eliminare gli eccessivi poteri che la nostra legge attribuisce al Tesoro dovrebbe essere sostenuto con entusiasmo da chi vuole che le privatizzazioni portino non solo qualità di servizi agli utenti ma anche democrazia economica ai cittadini.

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: