→ settembre 26, 2014

Si parla di Telecom, e c’è sempre qualcuno che, per una ragione o per l’altra, propone di venderne la rete: quella passiva, fatta di cunicoli e di ponti radio, di doppini e di fibra. È proprietà di Telecom, le è stata venduta al momento della privatizzazione, è il collateral dei debiti fatti per comprarla. È aperta ad altri operatori in condizioni di parità, contribuisce in modo essenziale al valore di Telecom: lo si è visto anche recentemente, l’interesse di Vivendi a diventarne socio importante era determinato, oltre che dalla partita brasiliana, dalla possibilità di avere un’alleanza stabile con l’unico operatore che copre tutto il Paese. Telecom inoltre è proprietaria della rete attiva, le apparecchiature elettroniche, i computer e i programmi software. Insieme, rete attiva e passiva, forniscono il servizio di tlc.
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→ settembre 17, 2014

Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia.
di Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri
Rizzoli, 2014
pp. 235
MoSE, Expo e Tav. Tre casi di scuola sulle “poche parole che valgono milioni” analizzate da Giavazzi e Barbieri
Di corruzione si può scrivere con la lente del magistrato, con i modelli dell’economista, con la gioia perversa del moralista. Se ne può scrivere anche con amore e dolore, amore per una delle più straordinarie città del mondo, dolore per gli scempi, morali e fisici, che in suo nome si sono compiuti: Venezia. E’ quello che fanno Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri in “Corruzione a norma di legge”.
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→ settembre 11, 2014

di Fabrizio Onida
Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».
Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.
Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.
Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.
I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.
Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).
Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.
ARTICOLI CORRELATI
I rebus della politica industriale
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2014
→ settembre 4, 2014

Dall’imprevedibilità viene la spinta a innovare, più che dai dirigismi
Per riformare «non basta dire no» – ai no a eliminare l’articolo 18, a ridimensionare l’obbligatorietà dell’azione penale, a privatizzare i servizi dei comuni. Bisogna ottenere il sì di chi chiede interventi che valgano a farci uscire dalla stagnazione. E per il riformatore può perfino essere più facile isolare i no che prospettano i disastri che altrimenti si produrrebbero, che rispondere ai sì, e ottenere i miracolosi risultati che ci si aspetta dall’adozione di certe politiche. Tra queste una delle favorite è la «politica industriale».
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→ agosto 21, 2014

Caro direttore, Renzi, se vuole, è capace di parlar chiaro. Lo ha dimostrato con le riforme istituzionali (Senato e legge elettorale): erano chiari gli obbiettivi, i tempi, le alleanze politiche, e il metodo, almeno per ora, sembra averlo premiato. Invece quando dice che «in nessun caso noi sforeremo il 3%» nel rapporto tra deficit e prodotto interno lordo (Pil), non riusciamo a capire se questa è una buona o una cattiva notizia. Cioè se significa che ha scelto la strategia di «tagli marginali e qualche aumento nascosto della pressione fiscale» che, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 17 agosto), «ci regalerebbe un altro anno di crescita negativa», oppure se vuol dire che questo per lui è solo un traguardo di tappa, e che non ha rinunciato alla «strategia coraggiosa» che gli consigliano.
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→ agosto 17, 2014

By Stefan Wagstyl
Most Europeans think their societies are far less equal than they are, while Americans are unusual in believing that their country is somewhat more equal than it really is.
A German report sheds new light on the political challenges involved in tax, income distribution and social fairness and raises fresh questions in the equality debate recently revived by French economist Thomas Piketty.
“The results of the study suggest that, in the political debate on income distribution, it is often not the facts that count but [perceptions],” says Professor Michael Hüther, director of the Cologne-based IW economic institute, which carried out the research.
Judith Niehues is due to present her findings this week at Germany’s Lindau economic conference, attended by Nobel laureates. She compared actual and perceived income levels in the US and 23 EU countries, using economic data and an international social attitudes study based on polling about 1,000 people in each country.
She found that people in Europe underestimate the proportion of middle-income earners and overestimate the proportion of the poor, commonly defined as people on incomes of 60 per cent or less of the median.
Only the US has a more unequal income distribution than its citizens imagined, with many more poor people.
In Europe, people on middle incomes are far more numerous than those at the bottom or the top of the pay ladder. So a European income distribution chart resembles a barrel, with a bulge in the middle. But many people see it as a tower standing on a broad plinth, with a small elite, a modest middle-class and a big base of low earners.
This is particularly true in Germany and France, where people see income distribution as far more unequal than it really is. By contrast in Britain and Spain, where income distribution is somewhat less equal than in France and Germany, people’s perceptions are more accurate.
In the US, more than 30 per cent of Americans have incomes of 60 per cent or less of the median. But most people think that only 24 per cent of their fellow citizens are at this level. “The middle class is truly smaller in the USA and the lower income group considerably more numerous than its citizens suppose,” says a summary of the study.
The report suggests this might be partly linked to social mobility in the US – people may be less focused on inequality if they think they are climbing the income ladder. The relative lack of concern about inequality could explain why pressure for redistributive taxation is lower in the US than on the other side of the Atlantic.
In Europe, the gap between perception and reality is particularly wide in the former Communist states, with citizens convinced their countries are far less equal than they are.
In addition to perceptions of income distribution, the report also looks at levels of concern about inequality. This tends to be greater in countries with higher levels of perceived inequality – such as France and Germany – than in countries with higher levels of actual inequality – such as the UK and Spain. More than 50 per cent of Germans and 79 per cent of French think income differentials are too great, compared with around 30 per cent of Britons and Spaniards.
The report suggests that all this should matter to policymakers designing tax and social transfer systems because actual levels of inequality seem less important to voters than perceived levels of inequality.
But it does not address the core argument in Mr Piketty’s book, which focused on inequalities of wealth rather than income, and argued that wealth inequalities are more significant in driving overall social inequality.
Subjective Perceptions of Inequality and Redistributive Preferences: An International Comparison, by Judith Niehues, Cologne Institute for Economic Research