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Archivio per il Tag »Luca Ricolfi«

→  luglio 15, 2016


C’è stato quello britannico, altri potrebbero essercene in Europa, naturalmente ci sarà il nostro di ottobre: referendum, s’intende. Tema su cui conviene tornare per discernere, nelle critiche, quelle sul risultato della consultazione, quelle sulle modalità con cui si è svolta, quelle sull’istituto referendario in sé. Sul risultato di Brexit, abbiamo letto di tutto (e altro leggeremo): cause e conseguenze, accuse e pentimenti, rimedi da trovare e occasioni da cogliere.

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→  novembre 24, 2015


articolo collegato di Luca Ricolfi
Ci sono, in natura, tre strategie fondamentali per reagire a un pericolo: l’attacco, la fuga, la simulazione della morte. La tigre attacca, la gazzella fugge, il rospo – come molti altri animali, sia vertebrati sia invertebrati – finge di essere morto.

Forse non sarebbe inutile, per capire quel che ci sta succedendo, guardare a noi stessi con occhio più disincantato, come un etologo fa con gli animali, o un marziano farebbe se sbarcasse su questo nostro dilaniato pianeta. Leggendo il fiume di parole che è seguito alle stragi di Parigi, troveremmo difficile non accorgerci che la nostra reazione dominante, almeno in Italia, è quella del rospo.

C’è chi lo dice in modo sofisticato e indiretto, e c’è chi lo afferma esplicitamente, ma i capisaldi della nostra reazione si condensano in un unico messaggio di fondo.

Non perdiamo la calma, non spaventiamoci, non rinunciamo al nostro modo di vita, non imbarchiamoci in una guerra, non cambiamo i nostri (buoni) rapporti con i musulmani, non chiudiamo le nostre frontiere, non sottraiamoci al dialogo con l’Islam, non crediamo che quella in atto sia una guerra di religione. Una sorta di versione occidentale della imperturbabilità Zen.

È giustificata una simile reazione ai fatti di Parigi? In un certo senso sì, perché essa non fa che registrare uno stato di impotenza. Sappiamo benissimo che i cittadini delle nostre società opulente sono, da parecchi decenni (dalla fine della guerra del Vietnam, più o meno), indisponibili a sostenere i costi umani, economici e filosofici di una vera guerra. E capiamo perfettamente che l’unica reazione alla nostra portata è quella solita: varare qualche sanzione economica, colpire i pozzi di petrolio dei terroristi, rafforzare l’intelligence, mandare sul campo tecnologie e specialisti, formare una coalizione anti-terrorismo sotto l’egida dell’Onu, sperare che altri popoli meno civilizzati di noi ci levino le castagne dal fuoco mandando i loro soldati a morire contro i guerriglieri dello stato islamico.

Da questo punto di vista la strategia del rospo è perfettamente comprensibile. Se non puoi fuggire, se non puoi permetterti una vera guerra, quel che ti resta è la simulazione della morte. Che infatti, al di là dei proclami bellicosi, è la sostanza della nostra reazione.

Non c’è niente di strano, né di sbagliato, in tutto questo. Quello che è meno comprensibile, invece, è il racconto con cui accompagniamo questa reazione. Un racconto fatto di molte oneste verità, prima fra tutte la ricostruzione della catena di errori che le grandi potenze hanno commesso negli ultimi decenni, ma anche costellato di clamorose omissioni e di pericolosi fraintendimenti. Cose che un etologo o un marziano vedrebbero a occhio nudo, ma che sembrano sfuggire alla nostra sofisticata consapevolezza di interpreti di noi stessi.

Che cosa vedrebbe un etologo, o uno storico dell’umanità?

Intanto osserverebbe che, fra le specie animali, quella umana è l’unica i cui membri sono capaci di combattere, fino al sacrificio della vita, per entità astratte, non necessariamente di tipo religioso e non necessariamente negative (Dio, la Nazione, il Comunismo, la Democrazia, la Libertà, i Diritti umani). Da questo punto di vista il fanatismo non è una anomalia, ma una eventualità sempre all’ordine del giorno nella storia della nostra specie (leggere Yuval Harari per credere: Da animali a dei, Bompiani 2014).

Poi, forse, il nostro etologo, storico, o marziano che dir si voglia noterebbe che alcune di queste entità astratte hanno una pretesa universale, o nel senso che vengono (da chi le sposa) ritenute valide per tutta l’umanità, o nel senso che vengono ritenute meritevoli di essere imposte al resto del mondo. È il caso del comunismo prima degli accordi di Yalta (che sancirono la spartizione del mondo in sfere di influenza), di un paio di religioni importanti (cristianesimo e islam) ma, per certi versi, anche di alcune idee politiche generali (democrazia e diritti umani). Il nostro marziano, essendo appunto marziano e non terrestre, non sarebbe particolarmente sensibile al fatto che alcune di tali ideologie siano supportate da buoni e altre da pessimi sentimenti, ma noterebbe la vocazione interventista di tutte le ideologie universali. In un mondo globalizzato e interdipendente, l’adozione di simili ideologie porta inevitabilmente con sé la tendenza a immischiarsi nelle faccende degli altri popoli, poco importa se in nome di un aggressivo ideale di conquista politico-militare, o di un più benevolo istinto di colonizzazione culturale. Da questo punto di vista, marziano e non terrestre, Jihad e guerre umanitarie, propaganda religiosa e ideologia dei diritti umani, sono facce diverse del medesimo processo di disintegrazione del mondo. Un processo che si limitava a covare sotto la cenere finché c’erano le aree di influenza e vigeva la realpolitik, con il suo cinismo e la sua saggezza, ma che è divenuto ingovernabile quando, una trentina di anni fa, il mondo è diventato un unico palcoscenico, disponibile per le rappresentazioni di tutti.

Ma c’è soprattutto una cosa che stupirebbe il nostro osservatore sbarcato da Marte. Ed è il nostro, intendo di noi occidentali, fraintendimento del Corano. Lui, a differenza della maggior parte di noi, il Corano l’ha letto. E di esso si è fatto un’idea molto chiara.

Il Corano è un testo unitario, e molto più coerente di quanto possa apparire a prima vista (“nel Corano c’è tutto e il contrario di tutto”, si sente spesso dire erroneamente). Siamo noi, cittadini imbevuti di valori cristiani, che ci rifiutiamo di capirne l’unità, e preferiamo vederne un solo lato, quello benevolo e accettabile, per poterci confermare nella strategia del rospo. Quel lato esiste, per fortuna, ed è anche importante, ma riguarda i precetti cui i musulmani di buona volontà sono tenuti nei loro rapporti reciproci. Su questo piano hanno perfettamente ragione quanti sottolineano l’affinità fra il Corano e i valori cristiani, compresa la misericordia e il perdono.

Il problema è che esiste anche un altro lato, quello che prescrive il dovere di combattere i non credenti, e di imporre il culto di Allah a tutti, anche con la violenza.

Detto un po’ crudamente: un conto è la politica interna del Corano, un conto è la sua politica estera. I due lati non sono in conflitto, anche se a noi possono apparire contraddittori.

Esemplare, a questo proposito, è il versetto che più sovente viene citato per mostrare la coerenza fra l’insegnamento di Cristo e quello di Maometto, ovvero il comune rifiuto della violenza. Il versetto viene spesso riportato così: «Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo sarà come se avesse ucciso l’umanità intera» (sura V, versetto 32)”.

Sfortunatamente, tuttavia, in questa forma il versetto è incompleto, in quanto amputato di un inciso essenziale. L’originale suona invece così:

«Chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera».

Nella visione cristiana, il divieto di uccidere è assoluto e incondizionato, qui invece prevede una macroscopica eccezione per coloro che hanno ucciso o «sparso la corruzione sulla terra». Il Corano è costellato di passi in cui si invita a combattere, anche con la violenza, contro i non credenti, siano essi adoratori di idoli (i politeisti), ebrei, cristiani, o semplicemente portatori di corruzione e di disordine. Quale debba essere il destino di coloro che portano la corruzione sulla terra è spiegato piuttosto chiaramente, oltreché in vari altri luoghi, nel versetto successivo secondo il quale la loro ricompensa è che «siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra».

Mi sono imbattuto per la prima volta in questi versi, e mi sono preso la briga di leggere il Corano, quando, una quindicina di anni fa, con altri colleghi sociologi mi trovai a occuparmi delle missioni suicide nel mondo (a me toccò la Palestina). E l’idea che ho maturato allora, quando il terrorismo (islamico e non) non era ancora spietato come oggi, è sostanzialmente questa: probabilmente facciamo bene, come cittadini di società largamente influenzate dal cristianesimo, a dare manforte all’interpretazione buonista del Corano, una interpretazione che sottolinea i contatti con il messaggio di Cristo, o si sforza di reinterpretare la Jihad come guerra puramente difensiva, o come combattimento interiore; ma facciamo male, molto male, a sottovalutare le formidabili difficoltà di quest’opera, pur meritoria, di rielaborazione del Corano.

Può piacerci o dispiacerci, ma il Corano sta lì, con i suoi versetti e le sue esortazioni, a disposizione di chiunque voglia leggerlo. E non bastano le libere traduzioni occidentali a cancellare la lettera di quei versi. Versi che, non dobbiamo mai dimenticarlo, si suppongono dettati direttamente da Allah al suo profeta, e come tali non sono facilmente riscrivibili, reinterpretabili, contestualizzabili. Esattamente il contrario di quel che capita con la tradizione cattolica, dove la reinterpretazione è la norma, perché la Chiesa pretende di essere l’unica depositaria della corretta interpretazione delle Scritture.

Ecco perché, a mio parere, il compito dell’Islam moderato è oggi assai difficile. La forza del terrorismo islamico riposa anche su una sorta di inversione fra ortodossia ed eresia: se prendiamo sul serio la lettera del Corano, i fanatici e i terroristi in nome di Allah possono apparire più ortodossi dei moderati, e il tentativo di questi ultimi di edulcorare il Corano può apparire vagamente eretico.

E noi? Non so se possiamo sfuggire alla strategia del rospo. Ma almeno potremmo, nella nostra imperturbabilità Zen, non ingannarci sulla difficoltà del compito che abbiamo di fronte. Perché non si tratta di leggere correttamente il Corano ma, al contrario, di aiutare gli islamici moderati a difendere la loro preziosa eresia.

→  ottobre 12, 2014


Un lavoratore oggi prende in busta paga il 50% di quanto costa all’azienda. Che cosa succederebbe per le casse dello Stato se, anche solo per i neoassunti, anche solo per la durata di 4 anni, il lavoratore, invece del 50% prendesse l’80 per cento?

Luca Ricolfi non ha dubbi: con il “job-Italia” – questo il nome che ha dato alla sua proposta – ci sarebbero almeno 300mila posti di lavoro in più. Diminuirebbero i contributi Inps e Inail, ma aumenterebbero le tasse (Iva, Irpef, Irap, Ires) derivanti dal maggior valore aggiunto del lavoro creato da ogni nuovo assunto, che altrimenti non ci sarebbe stato. E siccome il gettito delle tasse è 5 volte quello dei contributi, a un certo punto il minor gettito dei contributi è più che compensato dal maggior gettito delle imposte.

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→  ottobre 8, 2014


di Luca Ricolfi
Ma Renzi li legge i documenti ufficiali del suo governo? A me vien da pensare di no, o che li consideri solo noiose scartoffie buone per tranquillizzare i burocrati europei. Altrimenti non farebbe le dichiarazioni che continua a fare da mesi, in totale contrasto con quello che il suo ministro dell’economia scrive nella «Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014».
Renzi dichiara che nel 2015 i tagli alla spesa pubblica non saranno «solo» di 17 bensì di 20 miliardi; nelle scartoffie, invece, la spesa pubblica diminuisce di appena 4 miliardi. Renzi annuncia una rivoluzione nel mercato del lavoro, per dare una speranza ai disoccupati e agli esclusi, ma nella «Nota di aggiornamento» si prevede che l’anno prossimo l’occupazione aumenterà di appena 20 mila unità, a fronte di più di 3 milioni di disoccupati. Renzi ci promette che fra 1000 giorni l’Italia sarà completamente cambiata grazie all’impatto delle sue riforme, ma nella «Nota di aggiornamento» del suo ministro dell’Economia si prevede che nel 2018, a fine legislatura, sempre che la congiuntura internazionale vada bene e che le famigerate riforme vengano fatte, il tasso di disoccupazione sarà dell’11.2%, anziché del 12.6% come oggi: in parole povere 2-300 mila disoccupati in meno (su 3 milioni), a fronte di 1 milione e mezzo di posti di lavoro persi durante la crisi. Se fossi un imprenditore sarei preoccupato, ma se fossi un sindacalista sarei imbufalito. Come si fa ad accettare che in un’intera legislatura il numero di disoccupati resti sostanzialmente invariato? È per questo, perché sa di non essere in grado di creare nuovi posti di lavoro, che il governo pone tanta enfasi sugli ammortizzatori sociali?

Nuovi posti a costo zero?
Ed eccoci al dunque. Se la politica deve mestamente ammettere che «non ci sono le risorse», e quindi l’azione di governo di posti di lavoro aggiuntivi ne potrà creare pochissimi, forse è giunto il momento di cambiare la domanda. Anziché chiederci come trovare le risorse per creare nuovi posti di lavoro, dovremmo forse porci un interrogativo più radicale: si possono creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, a costo zero per le casse dello Stato?
Ai primi di marzo, quando come quotidiano «La Stampa» e come «Fondazione David Hume» lanciammo l’idea del maxi-job, la riposta era: forse. Oggi è diventata: quasi certamente sì.
L’idea del maxi-job era in sostanza questa: anziché distribuire a pioggia un’elemosina di cui nessuna impresa si accorgerebbe, perché non permettere alle imprese che già intendono creare nuova occupazione di crearne ancora di più?
Più precisamente: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione (e magari anche alle nuove imprese) di usare, limitatamente ai posti di lavoro addizionali e per un massimo di 4 anni, uno speciale contratto full time nel quale il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali.
Si potrebbe pensare che un contratto del genere ridurrebbe il gettito della Pubblica Amministrazione, a causa dei minori contributi sociali. E in effetti così sarebbe se, pur in presenza del nuovo contratto, le imprese non creassero alcun posto di lavoro addizionale; se, in altre parole, lo sgravio contributivo si limitasse a rendere più economici posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque. Se però si ammettesse che, con un costo del lavoro quasi dimezzato, alcune imprese creerebbero più posti di lavoro di quelli programmati, la questione degli effetti sul gettito diventerebbe assai più aperta. Bisogna considerare, infatti, che un posto di lavoro in più genera nuovo valore aggiunto, e una parte di tale valore aggiunto genera a sua volta gettito non solo sotto forma di contribuiti Inps e Inail, ma anche sotto forma di altre tasse, come Iva, Irpef, Irap, Ires, eccetera (e si noti che il gettito complessivo delle altre tasse è quasi il triplo di quello dei contributi sociali).

Il nodo del gettito
In breve, quel che la Pubblica Amministrazione deve chiedersi non è: quanto gettito perdo se i nuovi contratti di lavoro pagano meno contributi sociali? Ma semmai: le nuove tasse che riscuoto grazie a posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati bastano a compensare il gettito che perdo per i minori contributi sociali?
Ebbene, quando un anno fa formulammo la proposta del maxi-job non eravamo in grado di rispondere a questa domanda, perché non avevamo la minima idea di quanti posti di lavoro in più si sarebbero potuti creare con il nuovo tipo di contratto. Non sapevamo, in altre parole, qual era la «reattività» delle imprese. O, se preferite, qual era il moltiplicatore occupazionale del nuovo contratto. Però una cosa eravamo in grado di dirla: esiste una soglia di reattività sotto la quale il gettito diminuisce e sopra la quale il gettito aumenta. Tale soglia è circa 1.4 e significa questo: se i nuovi posti di lavoro passano da 100 a 140 il nuovo contratto non costa nulla, perché il gettito della Pubblica amministrazione resta invariato; se passano da 100 a meno di 140 (ad esempio a 120), il nuovo contratto costa, perché fa diminuire il gettito; se passano da 100 a più di 140 (ad esempio a 180) il nuovo contratto non solo non costa, ma fa aumentare il gettito.

La ricerca
Ecco perché gli ultimi sei mesi li abbiamo passati a cercare di scoprire quale potrebbe essere la reattività delle imprese. In primavera, con l’aiuto della società Kkien e dell’Unione industriale, abbiamo condotto un’inchiesta su 50 imprese chiedendo direttamente quanti posti di lavoro in più avrebbero creato con il nuovo contratto. Il risultato è stato sorprendente: nelle imprese che pianificano di aumentare l’occupazione i nuovi posti di lavoro sarebbero balzati, in media, da 100 a 264: un moltiplicatore pari a 2.64. Avremmo voluto rendere pubblico questo risultato, ma ci sembrava eccessivamente ottimistico e basato su troppo pochi casi. Si è quindi deciso di aspettare.
A giugno è intervenuto un elemento nuovo: l’Unione delle Camere di Commercio del Piemonte ci ha offerto di inserire il questionario sul maxi-job nella loro indagine di metà anno sulle imprese manifatturiere piemontesi, in modo da disporre di un numero molto maggiore di risposte (oltre 1000). Con nostra grande sorpresa il moltiplicatore è ancora salito un po’, portandosi a 2.64.
È a questo punto che è nata l’idea di un nuovo contratto di lavoro, il job-Italia, che va molto oltre l’impianto del maxi-job. Altrettanto conveniente per le imprese, il job-Italia è molto più generoso con i lavoratori. In estrema sintesi funziona così:
1) la busta paga è compresa fra 10 e 20 mila euro annui
2) il costo aziendale aggiuntivo rispetto alla busta paga è del 25%, anziché del 100% come oggi
3) il job-Italia è riservato alle imprese che aumentano l’occupazione, e dura da 1 a 4 anni
4) la differenza fra costo aziendale e busta paga viene usata per pagare l’Irpef dovuta dal lavoratore.
5) quel che avanza dopo il pagamento dell’Irpef viene conferito interamente agli enti previdenziali (Inps e Inail)
6) lo Stato aggiunge l’intera contribuzione mancante, assicurando al lavoratore una piena tutela (malattia, infortunio, disoccupazione, pensione, liquidazione).
Un sogno?

Le stime
In termini statistici, direi proprio di no. Se anche il moltiplicatore fosse solo 2 (anziché 2.64), se anche il nuovo valore aggiunto per addetto (quello dei posti «in più») fosse un po’ minore di quello medio, il job-Italia farebbe comunque incassare allo Stato molti più soldi di prima. Una stima prudente suggerisce che, senza job-Italia, le imprese che intendono aumentare l’occupazione creerebbero circa 300 mila nuovi posti di lavoro tradizionali, mentre sepotessero usufruirne creerebbero da 600 a 800 mila job-Italia, soprattutto nelle piccole imprese. Risultato: il gettito contributivo si riduce di 3 miliardi, ma quello delle altre imposte aumenta di almeno 6, il che basta a pagare i contributi di tutti i maxi-job attivati, e verosimilmente lascia ancora qualcosa nelle tasche dello Stato.

Chi frena?
Ma allora perché non si fa? Una possibile risposta è che ci sia qualche fallacia nel mio ragionamento, o nelle stime della reattività delle imprese, o nella valutazione della lungimiranza della Ragioneria dello Stato, ancora molto legata a una visione statica dei conti pubblici: non posso certo escludere queste eventualità, la mia è solo una «modesta proposta», per dirla con Swift. L’altra risposta possibile è che la politica ha le sue regole, e che per gli equilibri del Palazzo (o per quelli dell’Europa?) sia più sicuro battere strade più convenzionali. Il problema, però, è che sulla via dei piccoli aggiustamenti siamo da anni, e i risultati sono terrificanti.

→  agosto 6, 2014


Quante volte abbiamo sbagliato! Sbagliato a credere che il “sorpasso” ci avrebbe liberato dalla razza padrona; a non credere in Craxi; a credere nell’alleanza dei progressisti; a credere nella Bicamerale di D’Alema; a caricare a testa bassa la riforma costituzionale di Berlusconi; a pensare che Monti fosse la svolta. Sbagliamo, adesso, a credere in Renzi?

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→  agosto 3, 2014


di Luca Ricolfi
Su quel che fa il governo Renzi le opinioni divergono. C’è il partito del «finalmente, dopo trent’anni !» che si compiace di ogni novità, reale o presunta che sia. E c’è il partito del «niente di nuovo sotto il sole», che vede riemergere i soliti difetti della politica: tanti annunci e pochi fatti, scadenze non rispettate, leggi e decreti pasticciati, eterno rinvio dei problemi più spinosi, a partire da quello del mercato del lavoro.
Quello su cui quasi tutti sono d’accordo è che lo stile di governo è cambiato, perché il nuovo premier non è ingessato come i predecessori, e pare determinatissimo a portare a termine i propri piani. C’è un punto, tuttavia, su cui mi pare che non si stia riflettendo abbastanza. Quel che Renzi e i suoi stanno cambiando non è solo lo stile di governo, il tipo di comunicazione, il rapporto con l’opinione pubblica. A me pare che il cambiamento più importante sia una sorta di ritorno in grande stile del primato della politica. Un ritorno che, a seconda dei punti di vista, si può descrivere come sussulto di orgoglio o come rigurgito di arroganza, ma che comunque è in pieno atto.

Ma primato nei confronti di chi?
Alcune vittime del ritorno della politica si vedono ad occhio nudo. I magistrati e i sindacati, ad esempio. Non che questi due poteri siano stati riformati o meglio regolamentati, come da qualche decennio si attende. Però sono stati subito «messi a posto»: verso i magistrati Renzi ha dichiarato che non aveva alcun problema a tenersi degli indagati fra i membri del governo, verso i sindacati ha detto chiaro e tondo che potevano scordarsi i riti della concertazione, perché lui avrebbe deciso anche contro il loro parere.
Questa però è solo la parte più visibile della restaurazione del primato della politica. Accanto ad essa ve n’è un’altra, a mio parere ben più carica di conseguenze. Di tutti i premier della seconda Repubblica (e forse anche della prima) Renzi è quello che mostra il minore rispetto, per non dire il maggiore disprezzo, per qualità come l’esperienza, la competenza, la preparazione tecnica e culturale. E, simmetricamente, è il premier che con più spregiudicatezza ha puntato sulla fedeltà e l’appartenenza come criteri di selezione della classe dirigente.

Tutto questo era evidente fin dalla scelta della squadra di governo, con la rinuncia a servirsi dei migliori e la preferenza accordata ai più fedeli, ma è diventato via via più evidente nelle ultime settimane. Quando, nella polemica con il commissario alla spending review, Renzi e i suoi ribadiscono che «è la politica che decide», non c’è solo l’ennesima manifestazione dell’arroganza del potere (la frase «Cottarelli stia sereno» è un avvertimento di sfratto), ma c’è l’implicita affermazione di un’idea della politica come attività sostanzialmente autosufficiente. Un’idea che verrebbe da definire semplicemente ingenua, se le sue conseguenze non fossero estremamente dannose. Pensare che problemi di enorme complessità e delicatezza, come il cambiamento della Costituzione, la riforma del mercato del lavoro, la riorganizzazione della Pubblica amministrazione, si possano affrontare mediante un negoziato fra partiti, gruppi parlamentari e fazioni varie, senza un disegno coerente e meditato, con la sola logica delle concessioni reciproche, significa non avere la minima idea degli enormi limiti cognitivi della politica, tanto più di questa politica, con questi politici, nell’Italia di oggi. Nessuno costruisce un aereo, o un’automobile, o un computer, cercando di mettere d’accordo tutti i produttori che ambiscono a fornirne parti e componenti. Eppure è questa la pretesa della politica in Italia. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aerei, delle automobili e dei computer funzionano, mentre le nostre leggi di riforma non funzionano quasi mai.

Ma la restaurazione del primato del politico, sfortunatamente, non finisce qui. Il disprezzo per la competenza, per l’esperienza, per i saperi tecnici e specialistici, non si limita a privilegiare i politici puri nelle posizioni di governo, ma investe anche il lavoro e le professioni della gente comune. Per chi è della mia generazione, e ha preso atto degli obbrobri della rivoluzione culturale cinese, con le sue epurazioni di intere categorie di persone, medici, insegnati, ingegneri, professionisti, intellettuali, colpevoli soltanto di essere «borghesi» anziché «contadini poveri», fa un certo effetto la leggerezza con cui la politica sta procedendo a rottamare medici, magistrati, professori semplicemente in base alla loro età, senza alcuna considerazione sulle loro competenze o la loro utilità. Come fa effetto sentire che qualcuno è stato scelto «in quanto donna», o «in quanto giovane», senza alcun riferimento ai suoi meriti rispetto ad altri candidati.
La realtà, temo, è che demagogia e populismo sono ormai saldamente insediati nel Dna della nostra classe politica. Renzi e i suoi, almeno per ora, non sembrano fare eccezione. Perché l’essenza del populismo, il suo ingrediente fondamentale, non è l’appello al popolo (che pure non manca: «ho preso il 40.8% dei voti»), ma è il semplicismo, l’incapacità di riconoscere e accettare la complessità dei problemi di una società moderna, tanto più se in crisi da vent’anni. E’ di qui che nasce il senso di sufficienza verso professionisti ed esperti. E’ qui che trova alimento il sentimento di onnipotenza dei governanti. E’ qui, soprattutto, che il progetto di restaurare il primato della politica ha il suo fondamento logico: se i problemi sono semplici, e si tratta solo di tradurre in legge alcuni nobili principi, la politica può farcela da sola, e i Cottarelli di ogni genere e specie possono tranquillamente (anzi: «serenamente») andare a farsi benedire, tanto un tecnico amico lo si trova sempre.

Per Stella e Rizzo, autori del più fortunato pamphlet politico degli ultimi anni (La casta, Rizzoli 2007), c’è oggi forse qualche nuovo materiale su cui riflettere: la lotta contro la casta, nata per cambiare la politica, sta producendo la più spettacolare e imprevista rivincita della politica stessa.