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Archivio per il Tag »eurozone«

→  giugno 24, 2015


articolo collegato di Martin Sandbu

The referendum on UK membership of the EU is still some time off but the rhetorical attacks have begun, calling out those who wanted Britain to join the euro, most of whom have retracted their support or tried to forget it. Eurosceptics do not intend to let them get away with it. If you were so misguided as to have supported the euro then, they argue, surely we cannot take seriously your argument for continued EU membership today.
So, even if euro membership for the UK is not on the agenda, it is important to revisit the case. And the sceptics’ argument is unfounded: there is a good case to make that Britain would have fared better in the crisis inside the single currency than it did outside.
The eurozone’s terrible economic performance weighed heavily on Britain, dashing hopes of a recovery led by investment and exports. It happened because European leaders failed to pursue the best policies — in particular, their failure to end the credit crunch and loosen monetary conditions sooner, and their choice to push austerity even in economies with ample fiscal space.
The important question, therefore, is how the UK would have changed the eurozone’s policies from the inside. The answer is: in ways that would have brought growth back faster.
Take monetary policy first. The Bank of England would be a heavyweight inside the euro, and not just on account of its economy’s size. The BoE’s intellectual pole position on monetary matters and its feel for financial markets, honed by centuries in the middle of the City of London, would have made it a leader within the European Central Bank.
How would that influence have been used? The BoE understood the need for extraordinarily aggressive policy much better than its counterpart in Frankfurt. In October 2008, the ECB raised rates while the BoE embarked on a loosening that cut rates by four percentage points in less than six months. It has kept them at 0.5 per cent since March 2009, the month in which it launched an asset purchase programme that has accumulated government bonds worth a fifth of annual national income.
In contrast, the ECB raised rates twice in 2011, which helped throw the eurozone back into recession with knock-on effects on UK growth. And it took Frankfurt six years to follow Threadneedle Street’s lead on asset purchases.
Britain’s central bankers would have fought for similarly aggressive policies on the ECB’s executive board. Indeed the country’s huge, wobbly banking sector would have left them — and the rest of the ECB ­— with no other choice. (Even outside the euro, UK banks have trillions of liabilities denominated in euros, which the BoE could not have printed in the case of a run. Within the euro, that would have been the ECB’s problem.) One of the euro’s largest economies could not have been bullied the way smaller countries at risk were treated.
We cannot know how successful they would have been, but it is clear eurozone monetary policy would have tilted in a more pro-growth direction, and one that more confidently stabilised financial markets. Had the ECB started a broad bond-buying programme in early 2009, before the sovereign debt crisis was on the horizon, yields might never have spun out of control as they did.
What about fiscal policy? George Osborne, chancellor of the exchequer, can seem more fiscally conservative than Germany. But his original economic plan relied on eurozone demand for UK exports picking up the slack left by brutal deficit consolidation. From his perspective, the optimal policy would have been rapid cuts for high-deficit countries but compensatory stimulus in those with room to do so. That implies resisting Germany’s push for deficit cuts by all. This could have spared the eurozone a second downturn and shortened the UK’s patch of stagnation.
So in the fiscal sphere, too, British euro membership would have tilted policy in the direction of growth. And the influence could have been substantial. Recall Prime Minister David Cameron’s “veto” of the contractionary fiscal compact. In the event it was no veto: Germany pressed ahead, via an intergovernmental treaty committing 26 states to balanced budgets. But its intent was always to change fiscal policy for the currency union as a whole. One eurozone member could have stopped it.
To deny that British euro membership would have made the crisis better for all is to ignore the difference the UK would have made. Perhaps this is credible if one thinks Britain is as mismanaged at home and ineffectual abroad as Italy. But that is a strange view to take for those who believe Britain is so much more capable than its neighbours that it is better off outside their team.

→  giugno 21, 2015


articolo collegato di Barbara Spinelli

Dice Christine Lagarde, mettendo in guardia la Grecia in nome del Fondo Monetario, che «possiamo riavviare il dialogo solo se ci sono adulti nella stanza». Paradossalmente ha ragione: ci sono troppe persone incaute, troppi esperti economici privi di memoria storica e coscienza geopolitica, nelle stanze dove da mesi si sta decidendo il destino non tanto di Atene, quanto dell’Unione. Perché quando si discute dell’euro e delle sue regole, quando si invocano istituzioni europee più solide senza mettere in questione i parametri chiamati a sorreggere la moneta unica, è di tutta l’Europa che si parla e non di un singolo Paese in difficoltà.

Non è completamente adulto il Fmi, che difende a oltranza riforme strutturali giudicate dal Fondo stesso nocive e controproducenti, dunque sbagliate, fin dal 2013. Non sono adulti coloro che agitano lo spettro del Grexit, fingendo che sia una cosa facile, seminando panico nei risparmiatori greci, disinformando sul caos che regnerebbe nella Banca centrale ellenica. I Trattati dell’Unione e lo statuto della Bce non prevedono uscite unilaterali dall’euro, a meno che il Paese a rischio bancarotta non decida preliminarmente di abbandonare l’Unione stessa. Cosa che il governo greco non ha alcuna intenzione di fare. Cacciarlo non si può.

La verità l’ha accennata Mario Draghi, il 15 giugno nel Parlamento europeo, chiedendo che a sciogliere i nodi siano i politici dell’Eurogruppo e non i banchieri centrali. Si è guardato dal proporre alternative serie, ha ripetuto che «la palla resta inequivocabilmente in campo greco», e con ciò è stato più “politico” di quanto pretendesse, ma ha ammesso che in caso di ulteriore deterioramento dei negoziati «entreremmo in acque inesplorate».

Le pressioni che si stanno esercitando su Atene, perché comprima ancor più spesa pubblica e pensioni già ridotte al minimo, conferma che l’Unione è guidata da poteri sprovvisti di senso della responsabilità. Se fossero adulti, quei poteri inviterebbero nelle stanze dei negoziati persone che abbiano senso storico, e soprattutto memoria. Persone con una visione centrale e un forte principio ispiratore, consapevoli del fatto che la storia è tragica, memori dei disastri passati e lucide sui pericoli incombenti: lo sfaldarsi dell’Unione, e della sua forza di attrazione presso i propri cittadini.

Ci sarebbero, seduti al tavolo delle trattative, esperti geo-strategici, ed economisti sistematicamente disprezzati, anche se in questi anni non hanno sbagliato previsioni, come i due premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman. Tra coloro che insistono nel chiedere al governo Tsipras riforme strutturali già compiute non si annoverano economisti preveggenti ma piccoli politici che pur di conservare il potere rimangono pigramente appesi a dottrine dell’austerità al tempo stesso egemoniche e defunte, perché smentite da fatti di cui non si vuol tenere conto. Il prodotto interno lordo della Grecia, calcolato a prezzi costanti, è già calato del 27% a seguito dell’austerità, il debito pubblico è salito al 180% del Pil, e la disoccupazione è giunta al 27%.

Gli esperti in geopolitica aiuterebbero a capire la centralità della Grecia in un’Europa alle prese con un caos, alle proprie frontiere orientali e meridionali, che non sa e non vuole affrontare autonomamente, prendendo le distanze da una strategia statunitense che coscientemente resuscita la guerra fredda con la Russia e che al di là del Mediterraneo ha contribuito a creare un arco di destabilizzazione esteso dall’Africa subsahariana fino all’Afghanistan. La Grecia è ai confini con questo mondo, all’incrocio tra Balcani, Medio Oriente, Siria. I suoi legami con la Russia sono forti e antichi. L’avversione del governo Tsipras alle guerre contro il terrore, e oggi a interventi militari in Libia per smantellare le reti di trafficanti, è ben conosciuta a Berlino e Parigi. Non meno conosciuta è la sua avversione al Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Qualcuno forse nell’Unione vuol perdere Atene proprio per questi motivi. Ma la perdita sarebbe un suicidio geopolitico dell’Europa.

Se non vuole continuare a essere una pedina delle amministrazioni Usa e precipitare in una nuova guerra fredda, se vuole guardare con occhio freddo alla questione ucraina – riconoscendo che da un’oligarchia filorussa si è passati a un’oligarchia legata a estreme destre russofobe – l’Europa non può fare a meno della Grecia. Non può farne a meno neanche sulla questione immigrazione. Il nuovo governo ellenico sta affrontando un afflusso di migranti e richiedenti asilo ben più pesante e improvviso di quello italiano. Lo fa senza cedere a impulsi xenofobi. È non solo scandaloso ma immensamente ottuso giocare con l’ipotesi di un Grexit, e tacere sull’Ungheria che il 17 giugno ha annunciato la costruzione di un muro lungo 175 chilometri, ai confini con la Serbia, per fermare l’ingresso di profughi e migranti.

Mancano infine persone con un minimo di cultura generale, al tavolo delle trattative. In un articolo uscito il 16 giugno sulla Welt, il commentatore Jacques Schuster mette in guardia i connazionali tedeschi sostenendo che Tsipras si sta rivelando uno dei politici più astuti e abili d’Europa. In che consistono quest’astuzia e quest’intelligenza? Nel sondare l’anima tedesca, e nel profittare malvagiamente e furbescamente dei «nervi deboli» della Germania. Non potrebbe essere altrimenti, perché «i greci sono un popolo di naviganti», e i naviganti «sono abituati a fluttuare nelle acque, e a oscillare sull’orlo del baratro».

Articoli del genere sono allarmanti. Tornano parole del primo anteguerra, con le sue allusioni psico-etniche alla “nervosità” di singoli popoli personificati. E torna la distinzione tra mare e terra prediletta da Carl Schmitt negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso: tra popoli senza legge abituati a dondolarsi negli oceani e civiltà ben ancorate alla terraferma, capaci conseguentemente di darsi il nòmos, la legge e le regole necessarie.

I capi europei sembrano venire da quelle epoche, monarchi che come ubriachi si lasciano tentare da simili vocabolari bellicosi senza averne coscienza. Il futuro dell’Europa è troppo importante per essere affidato a sonnambuli esperti solo in teorie economiche defunte. Essere adulti, in Europa, è riconoscere le acque non solo inesplorate ma melmose in cui rischiamo di entrare.

→  giugno 26, 2012


by Martin Wolf

Yet again, the EU is about to hold a summit to deal with the crisis in the eurozone. Yet again, it is likely to fall far short of a convincing solution. A heavy weight rests on the shoulders of weary and disillusioned leaders. The question is whether there is hope for success.
What is needed, as I have argued before, is a solution that is both politically feasible and economically workable. The former means an ability not only to achieve agreement among governments responsible to national electorates, but also to obtain at least toleration of that agreement among those voters, something that greatly worries Angela Merkel, the eurozone’s most significant politician. Economic workability means offering electorates enough hope for the future to persuade them to elect leaders prepared to stick with membership of the eurozone.

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