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→  febbraio 20, 2015


La Merkel non può concedere aiuti senza riforme in cambio, da sempre. E così Tsipras potrà indicare il “colpevole” di Grexit

Gli aiuti ai Paesi in difficoltà vengono dati solo se condizionati all’accettazione di un programma di riforme: questo è il principio che Schäeuble continuerà ad affermare oggi a Bruxelles e sul quale sembra avere portato l’intero Consiglio d’Europa. Già l’ha detto ieri il suo portavoce: la lettera di Atene non presenta alcuna proposta di soluzione sostanziale. Sembra difficile che il Ministro delle finanze tedesco possa cedere, perché al principio di condizionalità la Merkel ha ancorato tutte le concessioni che via via ha fatto, sull’EFSM, sull’ESM, sull’OMT. Dopo il convegno di Bruxelles del 29 Giugno 2011, si era precipitata in sala stampa per confermare che l’intervento antispread con i fondi EFSN ed ESM era sotto condizionalità, e non automatico, come Monti, rischiando l’incidente diplomatico, aveva lasciato intendere. Non c’è solo Syriza e le sue spericolate promesse per vincere le elezioni. C’è anche la Merkel che, oltre all’incognita Karlsruhe e alla spina nel fianco AfD, deve fare i conti con un’opinione pubblica tedesca in questa circostanza unita come raramente.

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→  febbraio 13, 2015


Comunque vada a finire con la Grecia, l’Eurozona non sarà più la stessa, dice Ambrose Evans-Pritchard del Daily Telegraph. Nel senso che l’euro sarà più forte o più debole? Più debole lo sarà certamente se la Grecia resta nell’euro. Non per il costo del bail out, ma per la credibilità dei trattati: essi sono l’essenza stessa dell’Unione. Come si fa a tenere dentro un paese che prima è entrato falsificando i conti, ora fa di tutto per dimostrare di non riconoscere gli impegni e neppure di conoscere le regole di convivenza nel gruppo? I leader di Syriza hanno incominciato il loro giro in Europa da Londra, che non fa parte dell’Eurozona, quasi a significare che i loro interlocutori sono i mercati e non le burocrazie di Bruxelles o di Francoforte. Hanno proseguito a mettere dita negli occhi chiedendo a Berlino di pagare i debiti di guerra e a Francoforte di distribuire gli utili sul trading dei bond, non secondo il capital key nella Bce, ma secondo la nazionalità di origine. Il ministro delle Finanze ellenico Varoufakis sarebbe esperto di teoria dei giochi, ma sembra usare la sua scienza per perdere, cerca di mettere cunei tra persone o paesi che non hanno nessun interesse a dividersi: il sud Europa contro la Germania, Juncker contro la Merkel, gli Stati Uniti contro l’Europa, i diritti della democrazia contro i doveri derivanti dalle cessioni di sovranità. Qualcuno ha paragonato Varoufakis a chi si punta la pistola alla tempia e chiede gli si paghi un riscatto per non premere il grilletto. Un giorno o l’altro Tsipras dovrà fare i conti con le promesse fatte agli elettori: ma per ora più che convincerli ad accettare posizioni realistiche, sembra voler preparare il capro espiatorio a cui addebitare il default a cui li sta portando. Come potranno, Commissione e Consiglio europei, chiedere agli altri paesi il rispetto dei trattati e degli impegni? Perde credibilità tutta una politica di riforme strutturali, di un euro solido come base per crescita e investimenti. Il contagio è certo, l’euro diventa più debole.

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→  febbraio 12, 2015

È in corso la partita Atene-Berlino sul debito: in gioco c’è un possibile un cambiamento profondo dell’intera Ue

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→  febbraio 12, 2015


di Marco Valerio Lo Prete
Roma. L’economista Paolo Savona, ex ministro, ex Banca d’Italia, non sarà tra quanti sabato a Roma sosterranno in piazza “l’altra Europa” del leader greco Alexis Tsipras. Ciò non impedisce all’ex braccio destro di Guido Carli (che 23 anni fa firmava il Trattato di Maastricht) di ragionare sulla tempesta ellenica per sollevare un problema di fondo: “La trattativa bilaterale tra Bruxelles e Atene è un errore. Che perda la faccia l’una o l’altra parte non conta. Questo è il momento di concepire soluzioni erga omnes. Anche ridiscutendo l’annunciato Quantitative easing”, dice al Foglio Savona riferendosi all’acquisto di titoli di stato annunciato dalla Banca centrale europea per contrastare la deflazione nell’Eurozona.

Davvero conviene mettere in discussione l’agognata “svolta americana” della politica monetaria europea? Savona parla di “entusiasmo sconfortante” con cui è stato accolto il Qe. Due gli ordini di motivi. Innanzitutto, “i nuovi acquisti di titoli verranno garantiti dai bilanci delle Banche centrali nazionali per l’80 per cento, e dalla Bce per il rimanente 20. Poiché, secondo le regole vigenti, la Bce già garantisce direttamente l’8 per cento di tutte le operazioni effettuate dall’Eurosistema, e le Banche centrali il rimanente 92, l’innovazione introdotta con il Qe è che la Bce integra la sua garanzia solo del 12 per cento, non del 20. E viene a cessare la mutualizzazione dei debiti di ciascuna Banca centrale nazionale nell’ambito dell’Eurosistema”. In breve, secondo Savona, “la Bce non fa più sistema ma distingue le responsabilità pro quota. Tale scelta, a voler interpretare le parole di Draghi, è un ovvio corollario, o meglio un chiarimento, della ‘coronation theory’ che regge l’euro. Quest’ultimo è una corona senza re, una moneta senza stato. Cos’altro può voler dire che ogni paese si prende pro quota la responsabilità nel caso di default sul debito o di rottura definitiva del sistema?”. Così si arriva al secondo corno del ragionamento, che riguarda l’Italia e un tema delicato: un club (monetario) senza possibilità d’uscita è insostenibile; ragionare su exit strategy possibili e quanto più ordinate è d’obbligo. Il Qe, però, compromette questa possibilità. Lo fa di soppiatto, ma in maniera incisiva: “La decisione di immettere base monetaria attraverso il canale dell’acquisto di titoli di stato, forse perché è l’unico pronto, per un totale di 30 miliardi da parte della Banca d’Italia, ha due conseguenze. Mina il bilancio di Palazzo Koch impegnando – in maniera obbligatoria, pare – le riserve ufficiali anche auree. E impedisce in futuro allo stato italiano ogni genere di rinegoziazione o di dichiarare default del proprio debito senza determinare gravi conseguenze anche per la ‘sua’ Banca centrale”. In sintesi: “Il Qe funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino- Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica”. Savona precisa di non essere tra quanti ritengono che l’uscita dalla moneta unica curerebbe il paese dalle sue storture. E’ convinto però che nel lungo periodo “con queste condizioni non si può escludere l’ipotesi che diventi necessario rinegoziare partecipazione all’euro e debito sotto stress speculativo”. Ergo – ragiona Savona che da anni invita la classe politica a dotarsi di un “piano B”, come secondo lui perfino la Germania non ha mai negato di aver fatto – “Matteo Renzi e l’Italia farebbero bene a guardare oltre l’entusiasmo contingente. Laicamente, restare pronti a tutto”.

Che fare, dunque? “Il Qe, come concepito, è una modifica costituzionale. Il nuovo presidente della Repubblica, Mattarella, dovrebbe impedirla, chiedere il rispetto delle procedure parlamentari per essa previste”. Savona aggiunge di essere “assolutamente favorevole” a che la Bce possa intervenire acquistando bond statali dei paesi membri quando questi si trovano sotto attacco speculativo. “Tuttavia sarebbe meglio che questi poteri venissero a essa attribuiti in modo chiaro, accogliendoli nello Statuto”. Da qui discende l’appello a convogliare la tensione politica generata dalla nuova crisi greca in un “grand bargain”, come lo ha chiamato l’ex primo ministro inglese Tony Blair. “Soluzioni erga omnes per correggere la ‘zoppia’ dell’architettura istituzionale dell’euro”, le chiama Savona citando Carlo Azeglio Ciampi. Il Quantitative easing di Draghi, quindi, ma rivedendo lo Statuto della Bce. L’espansione monetaria, certo, “ma collegando gli acquisti di titoli alla realizzazione del Piano Juncker d’investimenti europei”. Il pareggio di bilancio, ma con una “condivisione dei debiti pubblici in eccesso al 60 per cento”. Perché le opinioni pubbliche dei paesi nordici dovrebbero accettare di buon grado? “Perché un accordo a livello europeo non verrebbe vissuto come una concessione a questo o a quel paese ‘peccatore’. E perché dei dividendi della ripresa ci avvantaggeremmo tutti”, conclude Savona.

→  febbraio 7, 2015


DI LUCREZIA REICHLIN
Non c’è più molto tempo per salvare la Grecia: forse meno di una settimana. Se una soluzione non sarà trovata alla prossima riunione dell’Eurogruppo, Atene si ritroverà nel giro di pochi giorni a non poter ripagare il suo debito a scadenza. La posta in gioco è politica e economica. Ed è su entrambi i fronti che non bisognerà sottovalutare i rischi per l’Unione europea di una possibile uscita della Grecia dall’euro.
Le ragioni per lavorare e trovare un compromesso con il nuovo governo ellenico sono sia etiche sia pragmatiche. Per capirlo bisogna ripercorrere la storia recente.
C ome conseguenza di una politica di bilancio irresponsabile del suo governo e dello shock globale del 2008, la Grecia è di fatto fallita nel 2010. All’epoca, l’Europa per la prima volta si trovò ad affrontare la crisi di un Paese dell’unione monetaria e decise di impedire la ristrutturazione del debito di Atene. La scelta, probabilmente giustificata, era dettata dal timore di contagio ad altri Paesi. Si perdettero due anni, costati molto cari ai greci — 10 punti percentuali di prodotto interno lordo, secondo le stime dell’economista francese Thomas Philippon. Nel 2012 si finì per cedere all’evidenza e si trattò una delle più colossali ristrutturazioni di debito sovrano della storia: si trasferì gran parte dei costi dai creditori privati ai cittadini europei e la si accompagnò a un draconiano programma di austerità e riforme della Grecia monitorato dalla troika (Fondo monetario, Banca centrale europea e Unione europea).
Da allora la Grecia ha perso il 25% del Pil e l’occupazione è caduta del 18%, eppure Atene resta schiacciata da un rapporto debito-Pil che veleggia verso il 180%. La cosiddetta deflazione interna, necessaria per l’aggiustamento, c’e’ stata, ma le riforme, in particolare quella del Fisco, non si sono viste. La Grecia è di nuovo di fatto fallita.
Ora un nuovo governo propone di ripensare la strategia. La richiesta, se si guarda oltre i messaggi a volte infantili, a volte irrealistici, spesso solo provocatori degli uomini di Tsipras, non è del tutto irragionevole. Per due ragioni. La prima morale. La Grecia sta pagando costi extra per non aver potuto ristrutturare nel 2010, strada che avrebbe comportato conseguenze minori per l’economia, come insegna l’esperienza di molti Paesi emergenti. È giusto che quel costo, benché sia una frazione di ciò che i greci dovranno pagare per ritrovare la sostenibilità, sia sostenuto da tutti i membri dell’Unione.
La seconda è economica. La combinazione di riforme e austerità in un Paese con istituzioni fragili e una classe politica discreditata e corrotta non può dare risultati: la vittoria di Syriza lo testimonia. Per questo, ora, la ricerca di un compromesso realistico tra creditori e debitori appare meno onerosa del pugno di ferro. Il pragmatismo deve imporsi sulla volontà di punizione.
Tuttavia, un accordo tra Grecia e Paesi creditori — mi riferisco agli altri partner dell’area euro — deve essere basato su principi generali, senza i quali l’Unione non può funzionare.
Il governo di Atene non vuole un nuovo programma monitorato dalla troika. Chiede di costruire con i membri dell’eurozona un piano di riforme capace di aggredire le cause del fallimento dei precedenti esecutivi, in particolare su evasione fiscale e riforma del sistema contributivo. In sostanza un contratto che imponga obiettivi quantificabili e monitorabili, lasciando ad Atene la sovranità sulla via per raggiungerli. Per arrivare a formulare questo programma il nuovo governo greco chiede tre mesi e un finanziamento ponte che tenga il Paese in vita fino al raggiungimento dell’accordo. La Bce ha comprensibilmente detto di non poter fornire questo finanziamento. Rimanda la palla ai governi: ed è giusto, perché questa decisione coinvolge i contribuenti dei Paesi dell’Unione, quindi i loro rappresentanti politici. La scelta non è neanche della Germania, anche se il punto di vista del maggiore creditore di Atene resta determinante.
L’iniziativa del negoziato deve essere presa dall’Eurogruppo. Solo in quella sede si capirà se tra le prime, irrealistiche richieste di Atene e la durezza della posizione che pare emergere dai primi incontri di questa settimana, ci sia uno spazio per un accordo. Il percorso è difficile. Parte del programma di Tsipras (la riassunzione dei dipendenti statali per esempio) è inaccettabile. Ma è difficile anche per la spirale politica che comporta: ogni vittoria del nuovo governo di Atene si risolve, infatti, in un aiuto ai partiti anti-austerità oggi all’opposizione nel resto d’Europa.
Ma cosa succederebbe se la strada del negoziato non fosse battuta con convinzione e non si raggiungesse un accordo? Non ho dubbi: sarebbe una sconfitta politica ed economica per l’Europa. Come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times , la nostra Unione non è un impero ma un insieme di democrazie; per non fallirne il test fondamentale si deve trattare. Il percorso seguito finora non ha funzionato e ci sono ampi margini per un compromesso.
Ma c’è anche una ragione economica. Per i cittadini dell’Unione il costo di un’uscita della Grecia è piu alto di quello di un allentamento delle condizioni di rimborso del debito. Se Atene tornasse alla dracma, diventeremmo di nuovo un insieme di Paesi legati da un sistema di tassi di cambio fissi da cui un Paese può uscire in ogni momento. Tornerebbe anche per l’Italia quel cosiddetto «rischio di convertibilità» da cui Draghi ci mise al riparo nel 2012 con l’affermazione che l’euro sarebbe stato difeso ad ogni costo. Se la Grecia uscisse dalla moneta unica, infatti, perché escludere analogo destino per un altro Paese? La Commissione ha appena ricordato che la ripresa è fragile e la Grecia non è certo l’unico Paese potenzialmente a rischio. L’esperienza degli Anni 90 ci insegna che i sistemi a cambi fissi sono instabili, tanto da aver determinato l’esigenza della moneta unica. Tornare indietro sarebbe un errore che pagheremmo molto caro.

→  febbraio 3, 2015


by Martin Wolf

Maximum austerity and minimum reform have been the outcome of the Greek crisis so far. The fiscal and external adjustments have been painful. But the changes to a polity and economy riddled with clientelism and corruption have been modest. This is the worst of both worlds. The Greek people have suffered, but in vain. They are poorer than they thought they were. But a more productive Greece has failed to emerge. Now, after the election of the Syriza government, a forced Greek exit from the eurozone seems more likely than a productive new deal. But it is not too late. Everybody needs to take a deep breath.
The beginning of the new government has been predictably bumpy. Many of its domestic announcements indicate backsliding on reforms, notably over labour market reform and public-sector employment. Alexis Tsipras, the prime minister, and Yanis Varoufakis, the finance minister, have ruffled feathers in the way they have made their case for a new approach. Telling their partners that they would no longer deal with the “troika” — the group representing the European Commission, the European Central Bank and International Monetary Fund — caused offence. It is also puzzling that the finance minister thought it wise to announce ideas for debt restructuring in London, the capital of a nation of bystanders.
More significant, however, is whether Greece will run out of money soon. Most observers believe that Greece could find the €1.4bn it needs to pay the IMF next month even if the current programme were to lapse at the end of February. A more plausible danger is that Greek banks, vulnerable to runs by nervous depositors, would be deprived of access to funds from the European Central Bank. If that were to happen, the country would have to choose between constraining depositors’ access to their money and creating a new currency.
As Karl Whelan, Irish economist, notes, the ECB is not obliged to cut off the Greek banks. It has vast discretion over whether and how to offer support. The fundamental issue, he adds, is not whether Greek government securities are judged in default, since Greek banks do not rely heavily upon them.
Far more important are bonds the banks themselves issue, which are guaranteed by the Greek government. The ECB has stated it will no longer accept such bonds after the end of February, the date of expiry of the EU programme. If the ECB were to stick to this, it would put pressure on the Greek government to sign a new deal. But this government might well refuse. In that case the ECB might cut off the Greek banks.
This game of chicken could drive the eurozone into an unnecessary crisis and Greece into meltdown before serious consideration of the alternatives. The government deserves the time to present its ideas for what it calls a new “contract” with its partners. Its partners surely despise and fear what Mr Tsipras stands for. But the EU is supposed to be a union of democracies, not an empire. The eurozone should negotiate in good faith.
Moreover, the ideas presented on the debt are worth considering. Mr Varoufakis recognises that partner countries will not write down the face value of the debt owed to them, however absurd the pretence may be. So he proposes swaps, instead.
A growth-linked bond (more precisely, one linked to nominal gross domestic product) would replace loans from the eurozone, while a perpetual loan would replace the ECB’s holdings of Greek bonds. One assumes the ECB would not accept the latter. But it might accept still longer-term bonds instead. GDP-linked bonds are an excellent idea, because they offer risk-sharing. A currency union that lacks a fiscal transfer mechanism needs a risk-sharing financial system. GDP-linked bonds would be a good step in that direction.
Many governments would oppose anything that looks like a sellout to extremists. The Spanish government is strongly opposed to legitimising the campaign of its new opposition party, Podemos, against austerity. Nevertheless, Greece and Spain are very different. Spain is not on a programme and owes much of its debt to its own people. It can justify much of its policy mix in its own terms, without having to oppose a new agreement for Greece.
Two crucial issues remain. The first is the size of the primary fiscal surplus, now supposed to be 4.5 per cent of GDP. The government proposes 1.0 to 1.5 per cent, instead. Given the depressed state of the Greek economy, this makes sense. But it also means Greece would pay trivial amounts of interest in the near term.
The second issue is structural reform. The IMF notes that the past government failed to deliver on 13 of the 14 reforms to which it was supposedly committed. Yet the need for radical reform of the state and private sector no doubt exists.
One indication of the abiding economic inefficiency is the failure of exports to grow in real terms, despite the depression.
Indeed, Greece faces far more than a challenge to reform. It has to achieve law-governed modernity. It is on these issues that negotiations must focus.
So this must be the deal: deep and radical reform in return for an escape from debt-bondage.
This new deal does not need to be reached this month. The Greeks are right to ask for time. But, in the end, they need to convince their partners they are serious about reforms.
What if it becomes obvious that they cannot or will not do so? The currency union is a partnership of states, not a federal union. Such a partnership can only work if it is a community of values. If Greece wants to be something quite different, that is its right. But it should leave. Yes, the damage would be considerable and the result undesirable. But an open sore would be worse.
So calm down and talk. Let us all then see whether the talk can become action.