Socialismo, identità perdente

maggio 8, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Che il centrosinistra tifasse Ségolène era scontato; anche quelli che, come Prodi, al primo turno erano schierati per Bayrou, al secondo si erano compattati sulla candidata della sinistra. Ma, a corsa finita, tifo e tatticismo diventano inutili, fare l’anamnesi degli errori compiuti in Francia non basta. Se il centrosinistra vuole veramente trarre profitto da quella lezione, deve capire, e spiegare, perché la sconfitta di Ségolène Royal è un aiuto al Partito Democratico. Tesi paradossale? Andiamo a vedere.

Qual è (stato) il maggiore ostacolo a far convivere in una casa comune DS e Margherita? Quale il tema che ha prodotto una scissione nei DS? L’eredità del socialismo, la collocazione dentro o fuori il PSE. Aldilà degli amarcord e delle lagrime, alla base sta un solido argomento di marketing politico: la parola “socialismo” ha forti valenze identitarie, rinunciarvi significa abbandonare un marchio, di cui qualcuno si approprierà. Anzi la gara per impadronirsi di quella franchise riesce ad unire (almeno per un po’) tradizioni politiche diverse, tanto per dire, un De Michelis con un Mussi, e forse oltre.
La vittoria di Sarkozy, o più precisamente, la sconfitta di Ségolène, dimostra che il valore di quel marchio è nettamente sopravvalutato. L’avevano già capito i fondatori del PD, che hanno fatto sparire le “s”, di socialismo o di sinistra. Adesso si tratta di fare un ulteriore passo: rendersi conto che quella del socialismo non solo non è più una bandiera necessaria per vincere ma può essere causa di sconfitta, che attardarsi sulla questione dell’adesione al PSE è una perdita di tempo, che le critiche per la scomparsa della “s” non sono un pedaggio, ma un viatico per il cammino del Partito Democratico. Per dirla tutta: che in questo momento storico, in Europa, non si può più vincere con le idee e i programmi del socialismo tradizionale.

Invece c’è chi se la prende con Bayrou, che avrebbe dovuto capire la necessità di convergere (Franceschini); o coi socialisti che avrebbero dovuto capire di non essere autosufficienti (Bindi). Nei DS l’imbarazzo è palpabile: Fassino non esce dallo schema noto, quando riconosce a Sarkozy la capacità di avere unito efficacemente “ il carattere classico della destra- liberismo economico e nazionalismo politico- con una tensione all’innovazione e alle riforme”. Si scopre l’acqua calda riconducendo la sconfitta alla mancanza di un’alleanza con Bayrou, constatando che al secondo turno i suoi elettori si sono divisi tra i due contendenti, e ammonendo che, per averli tutti dalla propria parte, era necessaria un’intesa politica solida, non l’attendismo opportunista. Nessuno risponde alla domanda di fondo: perché questa strategia, così ovvia, non è stata seguita? François Bayrou esisteva da anni: che cosa ha impedito di costruire per tempo un’offerta politica con lui? Per riuscirci, non bastava l’astuzia o l’interesse, bisognava riconoscere che i classici strumenti di governo della sinistra non funzionano più. A determinare la sconfitta di Ségolène è stato il timore di perdere la franchise legata al nome di socialismo, il patriottismo di sinistra.

La sinistra non ha il monopolio degli obbiettivi virtuosi: che sia di destra o di sinistra, nessuno può governare senza avere in cima ai propri pensieri una maggiore giustizia sociale, la lotta alla disoccupazione giovanile, nelle banlieux o nelle periferie meridionali. Le differenze stanno negli strumenti: e quelli della sinistra tradizionale non funzionano, che si tratti di redistribuzione di risorse reperite con il fisco, o di interventi statali diretti, anziché attraverso meccanismi di mercato. Forse sono modesti i passi avanti che un Paese come la Francia può compiere per ridurre la pervasività dell’amministrazione, forse porgere la mano dello Stato per salvare Alstom, come Sarkozy si vanta di aver fatto, era una scelta inevitabile. Ma nel mondo globalizzato, nell’Europa a 27, credere che l’interventismo statale possa essere una strategia politica è dissennato. Lo è anche in Francia, in Italia lo è aldilà di ogni possibile dubbio.
Non si tratta di una resa a quello che si chiamava “pensiero unico”: non si danno ricette uniche per problemi dipendenti dai contesti e dalla storia, quali il ruolo dei legami familiari, l’accettazione dei diversi, l’atteggiamento verso il rischio. I socialisti continentali hanno vincoli ideologici che riducono i loro gradi di libertà nel disegnare strategie di gestione della cosa pubblica. I colori delle bandiere, i suoni delle canzoni hanno un potere identitario, una presa simbolica: hanno obbligato Ségolène a adottare un programma poco netto, e le hanno impedito di elaborarne uno di coalizione. Perché memorie e tradizioni producano adesione ai programmi senza condizionare le scelte, è necessario che gli antichi simboli subiscano un ulteriore depotenziamento.

Nel suo intervento al congresso di Firenze dei DS, Massimo D’Alema ha individuato nella richiesta, da parte della società, di risposte che i vecchi partiti, DS e Margherita, sembrano incapaci di dare, ciò che rende “necessario” il nuovo partito. Specularmente, Giuliano Amato attribuisce la vittoria di Sarkozy alla capacità di “dare all’opinione pubblica messaggi che hanno lacerato stereotipi ormai consunti della destra francese [introducendo] una nota di liberismo economico a tutti i livelli”.
Se a tutto questo aggiungiamo che la demonizzazione dell’avversario – prevedere in caso di sua vittoria incendi (o tsunami, come fa Paolo Gentiloni) – si è dimostrata una tattica perdente anche in Francia, credo che la vittoria di Sarkozy, e la sconfitta della Royal, contengano spunti positivi per il PD. Sempre che li sappia cogliere.

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