La Waterloo degli sponsor

giugno 29, 2010


Pubblicato In: Giornali, Vanity Fair


da Peccati Capitali

Val poi la pena usare campioni famosi come testimonial? C’è da chiederselo, dopo le magre rimediate in Sudafrica. E pazienza se l’immagine della sconfitta è la maschera di un Cannavaro che cerca di consolare il compagno in lacrime. Ma quando è quella dei giocatori francesi che rifiutano di allenarsi per la partita che perderanno, c’è poco da salvare.

I casi di Luciano Pavarotti, che deposita i suoi guadagni in un paradiso fiscale invece che nel Monte Paschi di cui é testimonial, o di Tiger Wood, preso a simbolo di lungimiranti strategie, ma che incespica in fugaci avventure, avevano mostrato i rischi di prendere come testimonial un individuo. Scegliendo la nazionale di calcio, Crédit Agricole si credeva al sicuro: i ragazzini in casacca blu che stringono la mano ai loro idoli, modelli di lealtà, altruismo, spirito di squadra, avrebbero dovuto, per proprietà transitiva, riverberarsi sull’immagine solidale e paterna delle casse di risparmio francesi. Usati come commento alle parole con cui un giocatore invita il mister ad attività eterodosse e descrive le virtù della di lui madre, quegli spot sono una catastrofe.

Per i testimonial sportivi c’è un rischio specifico: nasce dalla contraddizione tra il piacere disinteressato dello spettatore, la passione cieca del tifoso, e i grandi interessi economici necessari per soddisfarli. Ma ad essere ambigua è l’idea stessa di usare personaggi famosi per vendere. Dopo tutto, non è più diretto e dunque più convincente fare pubblicità basata sulle qualità del prodotto o del servizio, senza ricorrere alla finzione di improbabili raccomandazioni?

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