Articolo 18, flessibilità e mercati globali

aprile 19, 2002


Pubblicato In: Giornali, La Stampa

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Sconfitta del Governo

Fa una giusta osservazione Jas Gawronski quando constata che il 16 aprile è stato un (grande e riuscito) sciopero e non una spallata al Governo, quando si compiace che proprio lo sciopero abbia reso chiaro a tutti che la piazza protesta e il Governo governa.

Non si tratta solo di esorcizzare i fantasmi del 1994 (e poi, i fantasmi, o gli eroi, bisognerebbe evitare di crearli: non è stata la piazza a rovesciare il primo governo Berlusconi, ma la Lega e, insieme ad essa, la Confindustria di Luigi Abete, timorosa che dalla piazza lo scontro potesse passare alle fabbriche: allora come oggi). Ma se ha respinto l’assalto ed è restato padrone del campo, non vuol dire che il Governo abbia vinto la partita. Al contrario, per il Governo si preannuncia una sconfitta.

Non può fare marcia indietro, perché così sconfesserebbe i suoi sostenitori e gli impegni sin qui ribaditi; sarà dunque costretto, in una situazione di finanza pubblica già problematica, a reperire qualche miliardo di euro: da destinare a una riforma degli ammortizzatori sociali per il cui esame manca oggi la serenità, visto che l’insistenza sul solo articolo 18 è sin qui riuscita a scontentare gli industriali e a mobilitare le piazze.

Nella stessa pagina La Stampa pubblicava ieri i risultati di un approfondito sondaggio su cosa pensano gli italiani della flessibilità. Alla domanda se preferiscano un mercato del lavoro in cui è più facile trovare un lavoro e più facile perderlo, o viceversa uno in cui sia difficile trovare lavoro ma una volta trovato sia difficile perderlo, 70 (settanta!) italiani su cento preferiscono la seconda alternativa.

La tranquillità del posto fisso è l’ideale non solo per chi il posto ce l’ha già, ma perfino della maggioranza (57 contro 43) di chi è disoccupato e avrebbe solo da guadagnarci da un mercato del lavoro più flessibile.

La tranquillità del posto fisso sopravvive con tutte le sue contraddizioni: in termini di efficienza, dato che i cicli economici e tecnologici si inseguono sempre più veloci; in termini di equità, quando l’importante è entrare nella cittadella delle tutele e tanto peggio per chi sta fuori. E anche per quella parte di imprenditori che ritengono l’art. 18 un reliquato di altri tempi reso però innocuo dal buon senso: non resterà difficile anche per loro conciliare il dinamismo necessario a vincere sui mercati mondiali e il conservatorismo di 70 lavoratori su 100?

La rigidità del mercato del lavoro, prima che nella legge, è nella testa della maggioranza degli italiani.

L’articolo 18 è una grande metafora delle loro aspettative. Modificarle è il compito di una classe dirigente. Qui sta il nodo, come aveva riconosciuto lo stesso Gawronski sulla Stampa del 10 aprile: “il problema più grosso ha a che fare con l’anima profonda di un Paese sempre attaccato all’interesse particulare, quello generale abbandonato per secoli ad altri”. Non voglio forzare Gawronski a una conclusione che resta mia. Ma se guardiamo alle aspettative degli italiani, sin qui sull’art. 18 il Governo non ha fatto avanzare il paese di un passo nella direzione giusta.

E’ questa, per la classe dirigente ora al comando, la più grave sconfitta.

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