Intervista a Saverio Borrelli
Almeno a Milano i numeri gli danno ragione. In tre anni le intercettazioni telefoniche sono diminuite quasi della metà, nel 2006 ne erano state fatte quasi seimila, l’anno scorso sono scese a poco più di tremila. Tra i tanti soddisfatti, a sorpresa c’è pure Francesco Saverio Borrelli, l’ex capo della procura oggi in pensione, l’ex magistrato a capo del pool di Mani pulite che pure ieri non ha voluto mancare all’inaugurazione dell’anno giudiziario: «Non si può fare a meno delle intercettazioni telefoniche, ma la magistratura deve fare un’esame di coscienza e avrebbe dovuto autolimitarsi».
Dottor Borrelli, non teme di diventare impopolare tra i suoi colleghi di un tempo? Molti di loro temono di essere imbavagliati a non poter più mettere telefoni sotto controllo…
«Io mi considero ancora appartenente alla magistratura e seguo le vicende giudiziarie con lo stesso spirito e rigore autocritico che avevo quando esercitavo la professione. Può darsi che la mia posizione sia impopolare. Ma bisogna essere autocritici. Non bisogna privare magistrati e forze di polizia di questo strumento di indagine ma probabilmente una riforma era inevitabile. Era necessario autolimitarsi».
Detto da lei sembra una critica ai suoi ex colleghi, accusati molto spesso di essere troppo appiattiti sui risultati che possono venire dalle intercettazioni telefoniche. E’ così?
«Assolutamente no. Non penso che i magistrati abbiano delegato la loro capacità di indagine alle sole intercettazioni. Ma è vero che qualche volta, con la speranza di di riuscire a trovare elementi a supporto delle indagini, si sono protratte a tempo indeterminato delle intercettazioni che invece andavano sospese molto prima. Magari dopo dopo tre o quattro settimane, visto che non portavano a nulla di concreto per le inchieste».
Secondo lei sono stati compiuti degli abusi?
«Non voglio parlare di abuso. Preferisco dire che c’è stato un eccesso. Un’eccessiva facilità in buona fede, nel protrarre a tempo indeterminato le intercettazioni».
Concede la buona fede anche al vicequestore Gioacchino Genchi e ai suoi dossier?
«Il suo è un archivio fatto per proprio conto. Non c’entra nulla con le intercettazioni. E’ un’altra cosa, fatta da un libero professionista, sfuggita ad ogni controllo».
Ma come si fa a concedere sei mesi per di più prorogabili per condurre le indagini e limitare ad appena sessanta giorni la possibilità di tenere sotto controllo i telefoni?
«Sessanta giorni sono un tempo intermedio che è stato trovato tenendo conto di tutte le esigenze. Nella limitazione dei tempi per le intercettazioni vanno ovviamente salvaguardati due principi».
Uno è quello che le indagini in corso non possono essere vanificate…
«Ovviamente deve essere salvaguardato il principio dell’efficacia delle indagini. Lo strumento delle intercettazioni è fondamentale per la magistratura e le forze di polizia. Va limitato ma non si può prescindere dal suo utilizzo in molte indagini. Ma c’è un altro principio fondamentale che deve essere salvaguardato allo stesso modo: è la tutela della privacy del cittadino, il rispetto della sua riservatezza. E’ chiaro che ci sono delle eccezioni a questo discorso».
A cosa si riferisce?
«Nel caso di un sequestro di persona in corso, è giusto andare avanti: non ha senso limitare l’utilizzo di uno strumento fondamentale a quel tipo di indagini, come sono le intercettazioni telefoniche».
All’origine delle polemiche degli ultimi tempi, ci sono i verbali di alcune intercettazioni non proprio utilissime alle indagini finiti sui giornali…
«Non ho mai avuto il gusto di buttare la colpa sugli altri ma il mondo dell’informazione in questo caso qualche responsabilità ce l’ha. Se i magistrati devono autolimitarsi come ho detto, forse anche i giornalisti devono porsi qualche limite».
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