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Archivio per il Tag »Angelo Panebianco«

→  agosto 29, 2018


Al direttore.

Incivilirli, come vorrebbe Orsina, o cacciarli, come esorta a fare Panebianco? Quello che fanno – e quello che non fanno – non può che portare a un deterioramento della condizione economica del paese: grave, ma insufficiente a cacciarli e incapace di incivilirli. Quello che inevitabilmente farebbero per nascondere il loro fallimento, questo sì che sarebbe veramente terribile. E poiché può accadere molto presto, non resta che cacciarli prima che succeda. Il Pd è quello a cui guardano sia Panebianco sia Orsina: chiami a raccolta quanti, con la loro inventiva e il loro lavoro, tengono ancora in piedi questo paese. Abbandonare senza rimpianti e con intransigenza quanti pensano che i Cinque stelle covino ideali comuni alla sinistra (la teoria della costola-della-sinistra 2.0) è la parte facile; quella difficile è liberarsi dell’antiberlusconismo (e del berlinguerismo di cui è la reincarnazione). Ma se non si incomincia da lì, tutte le geremiadi sull’assenza di un’opposizione sono puro flatus vocis.

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→  giugno 15, 2015


articolo collegato di Angelo Panebianco

D a decenni, con un’accelerazione dopo il varo della moneta unica, tanti invocano l’integrazione politica come panacea dei mali d’Europa. C’è del giusto. Non appare sostenibile la moneta unica in assenza di una «sintesi politica», di un sistema di governo. Semplice buon senso. In questi ragionamenti, però, c’è sempre stato anche qualcosa di poco convincente. Non è chiaro se chi invoca l’integrazione politica si renda pienamente conto delle implicazioni. Si ha l’impressione che molti la immaginino come una specie di assemblea di quartiere «in grande», nella quale si formano disciplinate maggioranze che decidono sulle proposte della giunta di quartiere su come ripartire oneri e vantaggi. Non c’è mai stato niente di più «spoliticizzato» della concezione della politica prevalente in quei commenti. Per ragioni che attengono alla storia dell’integrazione europea, l’idea di politica che vi è stata appiccicata sopra è quella che poteva inventarsi (con l’interessata complicità dei governi) un club di tecnocrati convinti che le decisioni che contano dovessero essere prese all’interno del club medesimo: gente educata e preparata che pacatamente discute del bene comune. Il popolo, poi, null’altro avrebbe dovuto fare che avallare le lungimiranti decisioni. Niente di più lontano da ciò che la politica è: conflitti di potere in cui si consumano ambizioni personali e di gruppo, e scontri frontali, e spesso feroci, fra contrapposte visioni di ciò che è collettivamente bene o male.
La politica, quella vera, si fonda sul principio dell’inclusione e dell’esclusione sulla base di criteri predefiniti (tu sei dentro e tu sei fuori) e ha un rapporto intimo, e inesorabile, con l’uso della forza. C’è una spiegazione del perché la concezione della politica prevalente sia stata quella del suddetto club di tecnocrati. Era l’idea di politica propria di un’Europa che non contava politicamente più nulla. Quando l’integrazione europea mosse i primi passi, negli anni Cinquanta, e ancora nei decenni successivi, l’Europa era divisa fra sfere di influenza, dipendeva dalle superpotenze. È parte della retorica europeista la bugia secondo cui gli europei decisero di mettersi insieme perché non volevano più farsi la guerra come era avvenuto per secoli. Invece, gli europei si misero insieme perché non potevano più farsi la guerra: non erano più il centro del mondo, ora dipendevano dagli americani e dai russi. Poiché la politica (in quel suo aspetto fondamentale che riguarda le decisioni su guerra e pace e sull’uso della coercizione) era competenza delle superpotenze, poiché l’Europa era ormai solo spettatrice delle gare di potenza, ne derivò una concezione irrealistica, distorta, di ciò che avrebbe significato, nei decenni a venire, unificarla politicamente. Ora le illusioni dovrebbero essere cadute. Se era comprensibile fino a qualche anno fa che si pensasse all’integrazione nei termini sopra descritti, adesso che la politica, quella vera, è venuta a cercarci, diventa colpevole insistere. Altro che Grecia. Che fare con la Russia o con le popolazioni in movimento dall’Africa e dal Medio Oriente, o con lo tsunami dell’estremismo islamico? Che fare insomma con i grandi nodi geopolitici? Sulla Russia, ad esempio, gli europei hanno adottato una posizione comune (le sanzioni) ma una parte di loro la subisce, si è dovuta inchinare di malavoglia a ciò che resta della leadership americana. Ma quella parte d’Europa è anche pronta, se potrà, ad accordarsi con lo zar delle Russie. Ma una cosa è dire che della collaborazione dei russi abbiamo bisogno (per esempio, in Medio Oriente), una cosa diversa è aspettare l’occasione per normalizzare i rapporti con loro fingendo che, dall’occupazione della Crimea in poi, nulla sia successo. Che razza d’Europa hanno in mente coloro che, ragionando solo di esportazioni e importazioni, pensano sia possibile una rinnovata partnership con Putin alle condizioni di quest’ultimo? È il solito vuoto, il solito «nulla politico», di cui in Europa esistono fior di cultori e specialisti.Sull’immigrazione si è scatenata una competizione di stampo nazionalista fra i Paesi europei. Renzi, nell’intervista di ieri al Corriere , ha sostenuto con ragione che dobbiamo battere i pugni in Europa e che lo stiamo facendo. Ma è un fatto che i vari governi europei, pronti a lasciare l’Italia nelle peste, non sono «cattivi», sono pressati da opinioni pubbliche che pretendono argini contro i flussi migratori. E in democrazia, ciò che vogliono le opinioni pubbliche è «legge» per i governi. Nulla meglio dell’incapacità di elaborare una politica comune dell’immigrazione illustra quanto ingenue siano sempre state le idee prevalenti sulla «integrazione politica». C’è qualcosa che si può fare? Sì, ma occorre tempo. Si elimini per sempre, quando si parla di Europa, qualunque riferimento alla parola «Stato» o simili: non ci sarà mai nessuno Stato europeo e genera crisi di rigetto il solo accennarvi. Come la Lega anseatica, la confederazione di città mercantili tedesche del tardo Medio Evo, abbiamo bisogno di mettere in comune poche cose e dobbiamo spiegarlo bene agli europei: niente superstato, niente scavalcamento (se non per il poco che è indispensabile) delle democrazie nazionali, solo un ristretto insieme di decisioni comuni per fronteggiare le più insidiose sfide esterne. Abbiamo effettivamente bisogno di politica. Ma anche di sapere di che cosa stiamo parlando .

→  aprile 16, 2013


di Angelo Panebianco

Siamo alla vigilia di una mutazione della Repubblica italiana? Le «volpi» stanno per essere sopraffatte dai «leoni»? È accaduto tante volte. Sta per accadere in Italia? Il modo in cui avverrà l’elezione del presidente della Repubblica non ci darà la risposta conclusiva ma forse chiarirà quale sia la direzione del nostro cammino. Tutto si riduce a un interrogativo: il Movimento 5 Stelle sarà determinante nella elezione del presidente, i suoi leader potranno intestarsi, di fronte alla opinione pubblica nazionale e internazionale, il titolo di king-makers ? Se ciò accadrà guadagneranno una legittimazione che li galvanizzerà e li renderà fortissimi, e anche coloro che si sono fin qui ostinati a non prendere sul serio le loro idee, la loro visione del mondo, i loro programmi, dovranno abbandonare ogni illusione. Perché nessuna delle due strategie immaginate per fronteggiare l’affermazione di questo nuovo soggetto politico reggerebbe.

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→  dicembre 29, 2010


di Angelo Panebianco

C’è qualcosa che accomuna l’opposizione della Fiom all’accordo Fiat-sindacati su Mirafiori e quella del Partito democratico alla riforma Gelmini dell’università, appena varata dalla maggioranza di governo. Sono le due più recenti manifestazioni di quella strenua difesa dello statu quo in qualunque ambito della vita sociale, politica, istituzionale, che è ormai da tempo la più evidente caratteristica della sinistra italiana, nella sua espressione sindacale come in quella politico-parlamentare. Si tratti di scuola, di rapporti di lavoro, di magistratura, di revisioni costituzionali o quant’altro, non c’è un settore importante della vita associata in cui il conservatorismo della sinistra non si manifesti con forza.

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→  marzo 8, 2008

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Protezionisti e liberisti

di Angelo Panebianco

Questione dell’aborto a parte, quella innescata da Giulio Tremonti su protezionismo e globalizzazione, con le reazioni polemiche che ha suscitato, è, almeno fino ad ora, l’unica discussione politico- culturale degna di questo nome della campagna elettorale. Investe un tema su cui l’intero Occidente è diviso e, plausibilmente, si dividerà ancor più nei prossimi anni. Una divisione che, per giunta, è impossibile ricondurre alla logora distinzione destra-sinistra. Si pensi, ad esempio, al fatto che il protezionismo è una delle bandiere del candidato alla nomination democratica Barack Obama.

Tremonti, armato dell’intelligenza e dell’anticonformismo che tutti gli riconoscono, ha rotto lo schema classico che vede (dall’epoca reaganiana e thatcheriana in poi) i liberal- conservatori combinare anti-proibizionismo in economia e tradizionalismo nelle questioni etiche. Riprendendo temi che aveva già sollevato in passato e a cui ha dato veste più sistematica nel suo ultimo libro, Tremonti ripropone l’idea della necessità di una dura difesa europea, e occidentale, dalla concorrenza asiatica. Nel quadro di una rivolta, anche morale, contro la rinuncia della politica a guidare il mercato. Sarebbe facile (ma sbagliato) dire che in questo modo i «no-global», coloro che combattono il mercato globale, hanno trovato un campione, inaspettato ma anche molto più preparato di quelli che si erano scelti fino ad oggi. Sarebbe sbagliato perché Tremonti non è certo, a differenza dei no-global, un avversario del capitalismo e della libera impresa. Ciò che propone è una protezione del capitalismo occidentale dal dumping
sociale, ossia dall’aggressione economica portata da Paesi nei quali le condizioni politiche garantiscono bassi salari e vantaggi competitivi. Una protezione che, nella visione di Tremonti, spetta agli statisti, a una politica di nuovo consapevole del proprio ruolo di comando, assicurare.

Non c’è dubbio che una posizione come quella di Tremonti sia fatta per dividere trasversalmente gli schieramenti. Contrastata dai liberali del centrodestra (ben rappresentati da economisti come Renato Brunetta o Antonio Martino) può trovare orecchie attente nel sindacalismo, Cgil compresa. Può attrarre quella parte del ceto medio, per esempio il mondo artigianale, estraneo ai processi di internazionalizzazione dell’economia, ma può anche arrivare a spiazzare e imbarazzare la sinistra estrema.

Non è certo l’unico, né il primo, Tremonti, a mettere in guardia contro la cosiddetta «faccia oscura della globalizzazione». In Occidente lo hanno già fatto molti altri prima di lui. Ma c’è una differenza. Tremonti occupa un ruolo politico di primissimo piano all’interno di uno schieramento liberal-conservatore e, se le elezioni daranno la vittoria al Popolo della libertà, sarà di nuovo alla guida dell’economia italiana. Ha ragione Alberto Mingardi quando, sul Riformista, osserva che Tremonti sembra proporre l’archiviazione del reaganismo, sinonimo (più nell’immaginario che nella realtà) di liberalismo economico senza vincoli, e il ritorno a forme di conservatorismo «sociale» come quello che fu incarnato in Europa dal generale De Gaulle.

Come Francesco Giavazzi (su questo giornale), come Renato Brunetta, come Antonio Polito (Il Riformista), come Fabrizio Onida (Il Sole 24 ore), anche chi scrive pensa che la strada indicata da Tremonti non sia quella giusta, e che la concorrenza, anche quella drogata dei colossi asiatici, possa essere affrontata solo con riforme liberalizzatrici e con la lotta contro l’oppressione burocratico-statale dell’economia. E non mi sembra che questo sarebbe un compito indegno, o subalterno, da proporre alla politica. Per esempio, piuttosto che la creazione di istituti di credito, se non pubblici, comunque guidati dallo Stato, non servirebbe di più al nostro Mezzogiorno, come ha proposto l’Istituto Bruno Leoni, la sua trasformazione in una no taxation area per le imprese disposte ad investirvi?

Pur non condividendo, riconosco tuttavia che quella di Tremonti è una posizione rispettabile e seria. È quello, comunque, uno dei più importanti temi con cui gli occidentali dovranno confrontarsi nei prossimi anni. Nonostante il ruolo politico di Tremonti, tuttavia, non credo che, in caso di vittoria del centrodestra, la sua posizione culturale possa tradursi in immediata azione politica. Non solo perché nel centrodestra sono in molti a pensarla diversamente da lui. Ma anche, o soprattutto, perché chi avrà responsabilità di indirizzo economico nei prossimi anni sarà inevitabilmente «assalito dalla realtà», dovrà fare i conti, prima di ogni altra cosa, con la necessità, comunque, di liberalizzare l’economia, colpire le rendite politiche annidate al centro e alla periferia, fare insomma tutte quelle cose che piacciono ai liberali, a quelli che pensano che il mercato, meglio senza frontiere, non sia solo il mezzo più efficiente per creare e distribuire ricchezza ma sia anche garanzia di libertà (per chi ce l’ha) e di emancipazione (per chi vi aspira).

ARTICOLI CORRELATI
Caro Tremonti, non aver paura
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 08 marzo 2008

→  novembre 26, 2001


Caro Direttore,

mi fa molto piacere vedere che l’appello che feci, con Modigliani, Sylos Labini, Baldassarri e Prodi, contro lo stralcio della riforma pensionistica imposto dai sindacati al primo governo Berlusconi (“E’ un patto miope”, Corriere della Sera del 4 Dicembre 1994) è ricordato come un fatto di qualche rilievo: ancora lunedì da Angelo Panebianco.

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