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Le impronte? Degli azionisti

Pubblicato il 23/09/2010 @ 08:56 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Nè la politica nè il capitalismo di relazione: l’ad ha solo pagato il prezzo delle sue scelte.

Leggere l’avvicendamento come la metafora bancaria del cambiamento di governance del paese che é nel’aria, spiega poco e confonde molto.

La delusione è palpabile: ma non era questo il miglior banchiere, attento alla banca e sordo alla politica? E le Fondazioni in questo caso non aveva esemplarmente anteposto la banca da sviluppare all’orticello da innaffiare? Mentre nell’avidità dei banchieri governanti e premi Nobel vedevano la causa della crisi, non era forse per la frugalità dei nostri risparmiatori e per la (relativa) moderazione dei nostri incentivi se gli impiegati non erano dovuti uscire dalle banche con i loro scatoloni e i Governi entrarci con i soldi dei contribuenti?

Piuttosto che mettere in discussione questa compiacente descrizione, alcuni ricorrono ad altre spiegazioni: il complotto politico, oppure la rivincita del capitalismo di relazione su quello at arm’s length. La colpa di Alessandro Profumo sarebbe quella essersi voluto scegliere il padrone, usando i soldi dei libici per ridurre il potere delle Fondazioni , e poi trovare nel mercato il sostegno della propria leadership. Molte banche blasonate, si sono rivolte ai fondi sovrani: ma il parallelo finisce lì: perché le altre grandi banche poi hanno tatto aumenti di capitale sul mercato a condizioni penalizzanti per gli azionisti, che quindi hanno cacciato i CEO, mentre Profumo i soldi li aveva chiesti non al mercato, ma alle Fondazioni e a condizioni non proprio di favore. Queste non avevano avuto timore di diluirsi per sostenere Profumo nella politica di acquisizioni, l’hanno alla fine seguito anche su una organizzazione che pure riduce il loro il potere locale. Perché adesso hanno cambiato orientamento: solo perché Profumo non ha saputo (o voluto? o potuto?) spiegare il senso dell’operazione?

Non regge la spiegazione come colpo di coda del capitalismo di relazione, ancor meno quella del complotto politico. A lasciare “le impronte digitali” sono stati i consiglieri, quelli delle fondazioni e quelli “tedeschi”: tutti allineati nel fare un favore alla Lega (ancor prima che nominasse i consiglieri di competenza) o a Berlusconi? Con Ligresti che vota a favore di Profumo come copertura? Anche nei riguardi della politica del Governo, Profumo si è costruito un’immagine di indipendenza: si è tirato fuori dal “salotto” di Via Solferino, e si è rifiutato di entrare nelle sistemazioni di Telecom e di Alitalia. Ma su cose di sostanza come la defenestrazione di Maranghi, o l’acquisto di Capitalia ha prestato alla politica tutta l’attenzione del caso. Ora che non è più al comando, la sua uscita favorirebbe la fusione tra Generali e Mediobanca: ma quando al comando c’era, non ha realizzato la fusione di Unicredito con Mediobanca (separata dalle sue partecipazioni) che avrebbe cambiato il panorama del settore bancario. Né risultano sue opposizioni alla vendita di Mediocredito Centrale al Tesoro, operazione pure controversa nei suoi profili bancari oltre che istituzionali.

Prima di cercare le cause nelle nostre anomalie, quella della politica o quella del nostro sistema di governance capitalistica, incominciamo a cercarlo nella normalità: gli azionisti cambiano il management quando non sono contenti di quello che ha fatto e non sono convinti di quello che intende fare. Anche a chi guarda le cose dall’esterno, sembra che abbiano motivi per non essere contenti. Unicredito in quanto a sedi e sportelli è l’unica nostra banca europea, ma non è europea la sua struttura di management: in questa emergenza le deleghe operative sono paradossalmente nelle mani di coloro che reggevano la banca tedesca, sostanzialmente fallita quando Profumo la comperò. E il cambio di governance pare venga affrontato senza avere nessuna idea sulle tante opzioni strategiche che si possono immaginare per riportare la banca ai risultati economici che è lecito attendersi.

Leggere l’avvicendamento di un CEO come la metafora bancaria del cambiamento di governance del Paese che è nell’aria, spiega poco e confonde molto. Vedere invece nel modo con cui viene interpretato da chi sta fuori e affrontato da chi sta dentro un’altra manifestazione dell’incertezza del Paese verso il suo futuro economico e sociale, è purtroppo più che giustificato.

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