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Viaggio alla scoperta della vera natura del business

Pubblicato il 11/03/2021 @ 13:36 in Articoli Correlati


di Alessandro De Nicola

«The business of business is business » , con questa frase icastica il Nobel Milton Friedman riassunse la missione delle imprese: fare affari, punto e basta. Il libro Fare profitti. Etica dell’impresa di Franco Debenedetti, imprenditore, parlamentare per tre legislature e oggi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, prende le mosse proprio dal famoso saggio di Friedman, pubblicato circa 50 anni fa il cui titolo era Le responsabilità sociale delle aziende consiste nel far crescere i profitti.

Debenedetti ricorda che i fautori della dottrina della Corporate Social Responsability sostengono che scopo dell’impresa sia di perseguire anche fini sociali, tal che i manager dovrebbe contemperare l’interesse degli azionisti (espresso dalla locuzione shareholder value) con quello di chi si trova in rapporto con la società, i cosiddetti stakeholders, ossia i dipendenti, i clienti, i fornitori, le comunità locali, la cittadinanza che ha diritto a un ambiente pulito, e così via.

Friedman replicò che il dovere dell’impresa era di produrre ricchezza e quindi profitti, “nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia incorporate nelle sue leggi, sia dettate dai suoi costumi etici”. Rispettare le regole del gioco voleva altresì dire “entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi”. Per l’economista fare diversamente avrebbe messo in condizione i manager di “tassare” i soci per perseguire le cause sociali preferite le cause sociali preferite o peggio quelle che avrebbero solo accresciuto il loro ego. Anzi, dovendo accontentare molti padroni e molte finalità, l’amministratore di società avrebbe sempre potuto dire che si era trovato costretto a sacrificare un obiettivo (lo shareholder value) per perseguirne un altro (il reddito del fornitore, la diversity, l’inclusione, il clima). In poche parole, non avrebbe più risposto a nessuno pur agendo con soldi altrui.

Inoltre, gli azionisti di una società sono portatori “residuali” di diritti, vale a dire sono soddisfatti solo dopo tutti gli altri stakeholder. Come nota Debenedetti, ai clienti (e ai fornitori) ci pensa la concorrenza (e i contratti); delle esternalità (l’inquinamento, la più importante) si occupano le norme e la regolazione; dei dipendenti si curano i sindacati e gli accordi individuali o collettivi. È per questo che gli amministratori hanno i cosiddetti “doveri fiduciari” nei confronti dei soci i quali, peraltro, sono coloro i quali li nominano.

Il libro passa in rassegna le critiche nel corso del tempo indirizzate a Friedman, ma alla fine non le trova convincenti. La giurista Lynn Stout, ad esempio, nega l’assunto che gli azionisti siano i proprietari della società e che quindi gli amministratori debbano curarne prioritariamente gli interessi. Ammesso che sia vero, l’obiezione è semplicissima: come si pensa di convincere gli investitori a metter soldi nelle imprese se ex ante sanno che la protezione dell’investimento non è prioritaria? Zingales, poi, riconosce la validità dello shareholer value di Friedman, ma in un contesto in cui non ci siano monopoli e le imprese non si diano a pratiche lobbystiche e quindi propone di instaurare dovrei fiduciari aggiuntivi per gli amministratori, rendendoli responsabili personalmente se l’impresa inquina, influenza i legislatori o abusa del potere di monopolio. Tuttavia, regole simili già esistono e, d’altronde, una necessariamente vaga “proibizione” alle imprese di “influenzare il processo legislativo” pone seri problemi di costituzionalità (per la corruzione c’è già il codice penale).

Il volume di Debenedetti ragiona sul come evitare che in nome di una piuttosto fumosa responsabilità sociale si creino commistioni inutili o dannose. Significative, a questo proposito, le pagine di critica all’intervento delle Banche Centrali nelle questioni climatiche. Il surriscaldamento terrestre è la sfida più importante dell’umanità e le imprese possono influenzare un percorso positivo, ma con che mandato e competenza lo farebbero le Banche Centrali? In conclusione, in questo saggio, in cui la teoria si intreccia all’attualità, domina preponderante il proverbio milanese “Ofelè fa el to mesté!”. Pasticciere, fa il tuo mestiere: se persino un torinese doc lo adotta, un motivo ci sarà.

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