Vendere, vendere, vendere: un’idea di Tremonti per Tremonti

ottobre 18, 2010


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Vendere, vendere, vendere. Ma vendere allegramente, orgogliosamente, per finanziare cultura, sapere, ricerca, crescita. Per ridurre il debito pubblico, che è largamente inferiore al valore del patrimonio immobiliare dello stato italiano. Vendere per allargare il settore privato e ridimensionare l’abnorme spazio del pubblico. Uno spazio che sa del secolo scorso e di quello che lo precede, un anacronismo, uno spreco inutile nella forma dell’immobilizzo. Vendere e liberalizzare, autorizzare, creare condizioni di business, far circolare i capitali privati (che sono ingenti e paralizzati dalla paura), agganciarli a una strategia della ripresa. Qualche caserma dismessa in meno, qualche grattacielo in più.

Tremonti dice che vengono prima i numeri poi le parole. E’ intelligente, è furbo, sa fissare in formule politicamente persuasive le idee che desume dall’analisi della realtà, dal racconto della storia, dal demone inquieto della teoria. E’ spiritoso e ganzo, è un po’ sadico. Non credo affatto ai pettegolezzi politici che lo vogliono intento a trame oscure, avvezzo al tradimento, pronto a scompaginare quel che resta della maggioranza che sostiene il governo Berlusconi. Ma deve rendersi conto che i numeri non sono solo quelli delle compatibilità di bilancio legate al deficit e al debito.
Grazie anche a lui, grazie alla fantastica riforma di fatto che con la legge di stabilità ci ha liberato della vecchia trucibalda finanziaria-souk, al disavanzo pubblico corrispone oggi un avanzo primario: escluso il servizio sul gigantesco debito, spendiamo meno di quanto incassiamo.
Non possiamo per questo scialare. Ma vendere una quota del patrimonio immobiliare pubblico, e magari cartolarizzarlo à la Tremonti, questo sì che possiamo farlo. E perché non lo facciamo? Che il patrimonio immobiliare sia pari al 130 per cento del debito è un numero anch’esso. Che la spesa qualificata abbia un ritorno sul pil, specie se erogata non per un generico “consumo culturale”, ma per istituzioni di cultura e ricerca risanate nei bilanci e nelle regole da leggi che riducono gli sprechi e le rendite di posizione e le pigrizie amministrative (primi passi per università e beni culturali sono stati fatti).
Un ministro dell’Economia ambizioso, come e più di Tremonti, dovrebbe dire: ora ho chiuso i cordoni della borsa per adeguare la finanza pubblica ai criteri europei e al contesto globale di crisi del debito sovrano, per non determinare una fuga di responsabilità capace di mettere in crisi il sistema. Ma subito dopo vi dico: cari ministri, dimostratemi con proposte serie e rigorose battaglie nella burocrazia, nel Parlamento, che
non sprecherete un euro, che tutto è finalizzato a promuovere non legioni di fannulloni ope legis ma veri e utili profili professionali, e allora i soldi ve li trovo, e ve li trovo magari incidendo sul patrimonio immobiliare pubblico che, così com’è, sta lì spesso a fare la bella statuina o la copertura pietrificata della nostra pigrizia. Confindustria dice di voler fare questa battaglia. La faccia, dunque, faccia in modo che si veda, che si senta e che conquisti il senso comune degli italiani.

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