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Unipol, Ds e Capitalismo

Pubblicato il 05/01/2006 @ 18:23 in Varie

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«Il Tesoro governa il primo passaggio di proprietà, il mercato governerà quelli successivi. Chiedere agli azionisti di Telecom per credere». Così Mario Draghi («Il Tesoro, gli azionisti, il mercato», sul Corriere della Sera del 14 agosto 1999) sintetizzava il metodo scelto dal Tesoro nella grande stagione delle privatizzazioni del primo centrosinistra.

A Luigi Zingales, che aveva criticato la scelta di vendere all’asta la partecipazione di controllo di Autostrade e di Aeroporti di Roma, vedendovi la conferma che «la legge è inefficace nella tutela del pubblico» nell’annullare o contenere in limiti ragionevoli il premio al controllo, Draghi obbiettava che «non necessariamente il mercato raggiunge» l’allocazione ottimale del controllo e aggiungeva: «inoltre io ritengo che il caso più frequente sia quello in cui varie imperfezioni dei mercati, non sempre modificabili con decreti del Principe, ne influenzino la capacità di valutazioni rapide e corrette».

Da allora sono passati più di 5 anni. Oggi Draghi è Governatore della Banca d’Italia, molte cose sono cambiate nel nostro capitalismo e nel Paese: ma il tema del premio per il controllo resta più attuale che mai. I premi al controllo sono da noi mediamente molto più alti che negli altri mercati sviluppati: questo dato è sintomo e conseguenza insieme di caratteristiche endemiche del nostro capitalismo, che sono altra cosa dalle «imperfezioni» proprio di ciascun sistema di mercato.

Se il premio al controllo è così elevato, vuol dire che le imprese valgono di più per chi ne ha il controllo che per gli altri azionisti. Il fortino eretto a difesa del beneficio privato del controllo ha molte linee difensive. La prima è quella della struttura societaria, il solito armamentario di scatole cinesi, accomandite, patti di sindacato (per le medie imprese è tout court il rifiuto a quotarsi). Poi c’è quella della maggiore facilità di accesso al credito, in un sistema in cui esso è prevalentemente di tipo relazionale anziché at arm’s lenght – secondo la tipizzazione che ne fanno Rajan e Zingales.

Ci sono le partecipazioni delle banche nelle imprese e delle imprese nelle banche. I conflitti di interesse, che si sono moltiplicati con la scelta del modello della banca universale, per definizione giocano nel senso di difendere il fortino.

C’è il potere dei media, in un Paese in cui la totalità dei grandi giornali è di proprietà di gruppi industriali che hanno interessi in altri settori.
C’è stato il ferreo controllo esercitato dal passato Governatore di Banca d’Italia sul sistema del credito, per cui ogni intenzione di cambiamento proprietario doveva avere il suo placet appena pensata, prima ancora di essere comunicata, perfino al consiglio di amministrazione.

Era anche questa una linea difensiva del fortino: ne è riprova l’unanime e convinto applauso che, il 31 maggio 2004, accolse la difesa, pronunciata con voce rotta dall’emozione, della Banca dall’attacco della politica, dopo le iniziative parlamentari seguite agli scandali Cirio e Parmalat.

Il parere di tutti gli analisti, dalla A di Alesina alla Z di Zingales, è concorde: se il nostro appare essere un Paese con poche idee, poco coraggio, perfino senza classe dirigente, se il nostro è un capitalismo asfittico, dove le medie aziende non riescono a crescere e le poche grandi imprese sono arroccate a difendere rendite di posizione, pronte a cogliere le occasioni offerte dalle privatizzazioni per occupare posizioni monopolistiche o a bassa concorrenza o a prezzi amministrati, il rimedio è: più concorrenza, meno protezioni, nessun privilegio. In primo luogo nel determinare il merito di credito. In sintesi, per restare nella metafora del fortino, abbattere le mura che lo difendono.

Come fare?

Le forze di mercato da sole non bastano, non riescono ad operare, in presenza di tanti fattori distorcenti. Nel caso delle privatizzazioni, lo schema Draghi ha funzionato una sola volta, con l’Opa Olivetti su Telecom, e solo perché il Principe dell’epoca volle che i «decreti», a cui proprio Draghi aveva lavorato, potessero applicarsi. E sì che l’assalto era diretto non al cuore del fortino, ma solo ad una provincia che da poco, e dopo molte insistenze, si era accettato di annettersi. Le telecomunicazioni saranno anche il futuro, ma le banche, i media sono tutt’altra cosa.

Nel caso Unipol-Bnl i Ds hanno creduto vedere il ripetersi dello stesso schema, tra l’altro a due livelli: un nuovo attore che si faceva largo ed entrava in un settore chiuso, e un nuovo «azionariato» che si affacciava al mondo della finanza. Certo che è sottile il confine tra il perseguire un obbiettivo di liberalizzazione e il cadere nel costruttivismo, tra il guardare con favore l’esito di un’operazione e l’auspicare un determinato assetto di mercato.

Ma non è su questo che dovrebbe vertere la critica, e neppure sull’avere concesso la propria fiducia, nel caso in cui si dovesse constatare che era stata mal riposta. La critica semmai riguarda l’inadeguatezza del mezzo al fine: se l’obbiettivo è quello di abbattere le difese del fortino, non basterebbero schiere di capitani coraggiosi, né di imprese che si inseriscano nel gioco competitivo. Non ci sono alternative: l’obbiettivo deve essere preso di petto.

Questo è ciò che la direzione Ds dovrebbe rispondere a quanti, all’interno e all’esterno, vorrebbero metterli sotto processo. Ci siano pure stati eccessi di interessamento, troppe familiarità, velleità costruttiviste, ma il nostro obbiettivo politico è chiaro: abbassare le mura e allargare le porte del fortino. Abbiamo dimostrato di crederci con le privatizzazioni, con la più grande operazione di mercato mai avvenuta prima d’allora in Europa, con il sostegno dato in ogni passaggio parlamentare alla riforma della Banca d’Italia, che è stato il più grosso ostacolo all’introduzione di concorrenza nel settore del credito. Chi, tra chi ci critica, può esibire simili credenziali? Ma soprattutto, chi condivide senza riserve il nostro obbiettivo?
Non credo che Mario Draghi sottoscriverebbe da Governatore della Banca d’Italia la considerazione sui limiti dell’azione politica che con correttezza istituzionale faceva da Direttore generale del Tesoro.

In ogni caso, la riforma di Banca d’Italia legittima l’attesa di un’azione decisa nell’eliminare le «imperfezioni». Si tratta del problema centrale per il nostro Paese: deve essere il tema centrale nei programmi delle forze politiche che si affronteranno nella campagna elettorale.

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