Un’Europa soft farà l’Europa

novembre 26, 2011


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Carlo Azeglio Ciampi era esplicito nello spiegare il meccanismo: se abbassiamo il deficit al tre virgola zero per cento, ripeteva, entriamo nell’euro, gli interessi sul debito si riducono al livello di quelli tedeschi. L’eurotassa è un prestito, ci fa incassare il “premio di credibilità”, e si ripaga con ciò che si risparmia di interessi: un pasto gratis (non proprio: la tassa venne restituita solo al 60%). Nessuno spiegò che se non volevamo esportare di meno e farci finanziare il debito dall’estero, era necessario che anche la nostra produttività crescesse come quella tedesca: e che questo non veniva gratis. Alla stessa maniera nessuno spiegò ai tedeschi, che un’unione monetaria comporta di trasferire costi economici e politici dagli Stati “dissoluti” a quelli “virtuosi”. Questo non detto è il deficit democratico alla base della costruzione dell’euro.

Il meccanismo si rompe quando Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a Deauville dichiarano che anche i privati dovranno pagare la loro parte del costo delle crisi: i mercati capiscono che il debito di un Paese dell’euro può non essere rimborsato, parte l’attacco al debito sovrano, il contagio si propaga dall’insolvente Grecia arriva a rendere illiquida l’Italia. Per funzionare, il meccanismo avrebbe bisogno di un prestatore di ultima istanza, che garantisca tutto il debito dei Paesi dell’Eurozona solventi: gli spread ritornerebbero ai valori di prima. Anche questo pasto non sarebbe gratis: il rischio è che così si incentivino i comportamenti “dissoluti”, e che il “premio di credibilità” equivalga alla monetizzazione del debito e porti all’inflazione. Questo fa scattare nei tedeschi un riflesso di blocco totale. Quando nel 1930 crollò il gold standard, uno dopo l’altro svalutarono Inghilterra, Giappone, Usa: l’unica a non farlo fu la Germania. Incalzata dallo spettro di Rudolph Havenstein, il governatore della Reichsbank responsabile dell’iperinflazione di Weimar, per paura dell’inflazione sopportò depressione e disoccupazione peggiori di qualsiasi altro Paese.
L’euro, ci dissero, è lo strumento per arrivare a un’unione politica e fiscale: un pasto gratis? Nessuno ha detto se portarci a questo obbiettivo sarebbe stato “il caso o la necessità”, se la moneta unica era il vantaggio competitivo che ci avrebbe fatto evolvere, oppure il vincolo che ci avrebbe costretto. E nessuno ha detto che cosa volesse dire “maggiore” unione: quanto è stato faticosamente definito, è stato bocciato dai Paesi in cui è stato sottoposto a referendum. Ora ci si accorge che “il re è nudo”, come scrive Guido Tabellini (Il Sole 24 Ore del 24 novembre), e che la costruzione ha difetti. Ma oltre ai pilastri mancanti – un lender of last resort, la supervisione bancaria sui rischi negli impieghi (che avrebbe forse evitato la bolla spagnola) – c’è un difetto di progetto: basare la resistenza sulla rigidità anziché sulla flessibilità. Il più grande esperimento finanziario della storia è stato progettato perché fosse complicatissimo modificarlo, difficile uscirne e impossibile rientravi. Il risultato è che il sistema è paralizzato di fronte a casi straordinari, e che la manutenzione richiede tempi lunghi e il superamento di 27 potenziali veti. Invece di riconoscere questo errore, oggi il rischio è che, pur di superare il veto tedesco a qualsiasi forma di garanzia sul debito di altri stati, si accetti una rigidità ancora maggiore (gli automatismi delle sanzioni) e un ancora maggiore centralismo (il micromanagement degli organi comunitari). Forse sarà inevitabile per evitare il disastro: ma è necessario rendersi conto, prima della prossima crisi, che così il sistema non può funzionare.
Come può funzionare un sistema che prevede di applicare provvedimenti deflazionisti su un’economia in recessione? Come può funzionare il sistema di cui abbiamo avuto un’anticipazione con i 32 punti di Olli Rehn, in cui le prescrizioni saranno sempre più minuziose, i preventivi più dettagliati e i consuntivi più sanzionati? Come può funzionare un sistema in cui la crescita passa sempre in secondo piano, e viene vista non come il risultato dell’iniziativa individuale fondata sulle peculiarità locali, ma se va bene affidata ai macroprogetti infrastrutturali prediletti dai burocrati dello sviluppo? Come può funzionare un sistema che contraddice il principio ispiratore della rivoluzione da cui sarebbe venuta, tra l’altro, una grande unione monetaria, quello per cui il potere di tassare spetta solo a coloro che hanno ricevuto, con il voto, il mandato di rappresentare?
Ora c’è l’affanno di trovare una soluzione tecnica, ma alla fine quello che conta è il problema democratico: ogni Paese ha il suo Havenstein. Se il 9 dicembre si eviterà il collasso, oltre che a correggere i difetti di costruzione, si dovrà anche por mano ai difetti di progetto. La soluzione non può essere rendere sempre più penetranti i poteri degli organi comunitari, non il one size fits all ma il considerare le diversità una ricchezza. Esercitare tra di noi il soft power che volevamo insegnare agli altri. Gli europei sono contenti di non correre rischi di cambio quando commerciano, di avere Schengen quando viaggiano, gradiscono il mercato unico, la concorrenza, la riduzione degli aiuti di stato, insomma l’anima liberale della costruzione europea. Ma per quanto riguarda tasse, previdenza, rapporti di lavoro vogliono avere rapporti più corti, non più lunghi con i loro governanti: sono i cittadini, non i governi e le burocrazie che non vogliono cedere sovranità su quelle materie. E allora, se si vuole che i cittadini degli Stati europei accettino una “maggiore” unione, sarà il caso di provare a proseguire sulla strada liberale che essi mostrano di apprezzare: per incominciare, un’Europa che dimostri di stare dalla loro parte proprio nel rapporto fiscale, che ponga limiti non solo sui saldi di bilancio ma anche sui prelievi, che ponga veti alle prepotenze che gli Stati esercitano verso i cittadini, non solo, ma soprattutto, in materia fiscale.

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