Una cultura d’impresa dentro il mercato

aprile 4, 2015


Pubblicato In: Corriere Della Sera, Giornali


Caro direttore,

per ricordare, con Giuseppe De Rita, quanti «per anni hanno sostenuto che la debolezza del sistema Italia (venga) dal prevalere della piccola dimensione» ( Corriere di ieri) non è necessario avere buona memoria: lo si legge ancora oggi, ogni volta che un pezzo importante del nostro sistema industriale viene «svenduto». Ultimamente la vendita di Pirelli è stata per alcuni pretesto per teorizzare la necessità del ritorno dello Stato azionista, che, per interposta Cassa Depositi e Prestiti, surroghi quello che viene giudicato un tradimento del capitale.


Ci fu un altro momento in cui il problema della dimensione aziendale si pose in termini concreti: fu all’inizio del processo di privatizzazione. «Vendete i bonsai di Stato» si scrisse all’epoca. All’interno dei macrosettori delle partecipazioni statali, si diceva, esistono diecine, forse centinaia di rami d’azienda che potrebbero essere convenientemente isolati e vantaggiosamente venduti, offrendo occasione di investimento ai tanti imprenditori medi che hanno tenuto su il Paese mentre le aziende di Stato perdevano. Ma, a dirlo, si era sprezzantemente additati come quelli dello «spezzatino». Mentre passare dal monopolio al mercato non è solo cambiare azionista, è consentire che dimensione di impresa e aggregazione di business siano quelle formate dalla concorrenza nel mercato e non quelle ereditate dal programmatore. Lo «spezzatino» facilita questa riaggregazione.

Se si ricordano queste storie passate è perché oggi si pone lo stesso problema: il mercato unico prima e la globalizzazione poi, richiedono di cambiare. Cambiare i prodotti e l’immagine, i Paesi dove produrre e quelli in cui vendere, gli azionisti e i finanziatori. Certo che ci vuole «nuova cultura organizzativa dei vertici, delle aziende, dei gruppi di impresa, delle istituzioni economiche». Ma queste culture possono solo farsi sul campo, per selezione, non nasceranno come Minerva dal cranio di un Giove programmatore. Bisogna evitare di fissarsi sul mantenere le grandi aziende come sono, dove sono, gridando “al lupo al lupo” quando si affaccia un investitore straniero e mettendogli a fianco la guida della Cassa Depositi e Prestiti.

Le 5.200 imprese del quarto capitalismo sono in testa per patrimonializzazione, redditività e produttività, sono all’origine di filiere produttive che contano 200.000 piccole aziende, generano il quinto surplus manifatturiero del mondo. Varrebbe la pena di ricordarsene, quando si chiede di piantar bandierine e di remar contro vento.

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