Un sano «fastidio» dalle Authority

novembre 17, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


«Normalizzare», nel caso di una formula matematica, significa compiere su di essa un’operazione che valga ad eliminare singola­rità che disturbano. «Normalizzare» le Autorità indipendenti — numero dei componenti, modalità di nomina, durata in carica e, soprattutto, retribuzioni — è lo scopo di un disegno di legge in pre­parazione al Ministero della Funzione Pubblica. Sono veramente queste le «singolarità» che danno fastidio?

La domanda è legittima. L’iniziativa del Ministro Piazza vie­ne dopo una lunga serie di manifestazioni di insofferenza verso le Autorità. Ricordo le principali: le polemiche del Ministero del­l’Industria per il giudizio espresso dall’Autorità dell’Energia sul piano di liberalizzazione proposto dal Ministero stesso, e dopo che si erano tollerate le villanie di Franco Tatò; a seguito delle cri­tiche dell’Antitrust alla legge sulle fondazioni bancarie, il sor­prendente attacco del Presidente della Camera alle Autorità in generale, giudicate «autoreferenziali», i cui membri non sono eletti e dunque «non sono punto di incontro delle responsabilità politiche nei confronti dei cittadini»; la Consob lasciata sola dal governo dopo che il suo regolamento sulle Opa, che interpreta la legge nel senso di facilitare la contendibilità delle società, è stato bocciato dal Consiglio di Stato; quando Bankitalia ha negato le autorizzazioni al progetto di fusione Sanpaolo — Banca di Roma, e a quella Credit-Comit, enunciando una controversa teoria ge­nerale sulle Opa ostili, il Governo ha lasciato che divampassero le polemiche; l’indagine conoscitiva della Commissione Affari Costituzionali della Camera, iniziata dieci mesi fa, resta per ogni evenienza aperta. Non stupisce se in questo clima il 90% delle sen­tenze dell’Antitrust sono impugnate, e se in 2/3 dei casi il Tar ne decreta la sospensione.
Il paradosso è che sia il Ministero della Funzione Pubblica ad avviare la «normalizzazione»: infatti è per sfiducia nella pubblica amministrazione — oltre che per ovvie ragioni di efficienza — che si ricorre alle Autorità. Sfiducia che la burocrazia dei ministeri, da anni infiltrata dalle aziende (e dai sindacati) dei monopoli pubbli­ci, sia imparziale nel fissare le regole durante la liberalizzazione dei servizi; sfiducia nell’efficienza della magistratura ordinaria nel proteggere i cittadini contro le intrusioni nella loro privacy, e i consumatori contro la pubblicità ingannevole.
Certo, anche le leggi istitutive delle Autorità contengono nor­me che andrebbero riviste: quando scrivemmo che le Autorità di settore devono avere sede fuori Roma era per rendere meno faci­le il travaso dai ministeri, non pensammo al pendolarismo di lus­so Roma-Napoli; si è dimostrato che sarebbe opportuno fissare in legge, e non solo pretendere dal fair play delle aziende, il divieto per gli alti dirigenti di passare dall’autorità controllante all’azien­da controllata.
Parliamo anche della questione meno «elegante», parliamo pure di stipendi. Le più vistose disparità, che penalizzano le Autorità di più vecchia costituzione, vanno corrette: ma non bisogna dimenticare che tutte le leggi istitutive delle Autorità prevedono per i membri e per i gradi superiori un trattamento economico sganciato dalle tabelle della P.A. Quella che ora ad alcuni appare una disparità da «normalizzare» non è un evento imprevisto, ma struttura portante, dato intenzionale del progetto.
Certo, le Autorità sono tutte diverse: per composizione, durata, nomina, stipendi. E allora? Il legislatore scrisse quelle norme in tempi diversi e avendo in mente scopi diversi. È vantaggioso per il funzionamento delle istituzioni renderle uniformi? Quelle retribuzioni sono uno spreco della Pubblica Amministrazione che si deve eliminare? Che un Governo non certo a corto di questioni politiche e di problemi operativi voglia prendere in mano un tema così spinoso e così poco necessario, è proprio questo a insospettire. Il pericolo è che il modello «normale» finisca per essere quel­lo del parlamentino eletto con voto di lista, lo sciagurato esito di una concezione politica dell’Autorità delle comunicazioni: non a caso quella che ha suscitato critiche non del tutto immotivate.
Le Autorità sono strumenti di efficienza e di garanzia: il loro bilancio è, in assoluto e ancor più per confronto, indubbiamente positivo. Invece che pensare di «normalizzarle» con leggi quadro, bisogna cercare di renderle più incisive. Ad esempio: è giusto che le delibere delle Autorità, che toccano diritti dei cittadini, siano sottoposte al giudice amministrativo; ma si dia almeno alle Auto­rità la possibilità di difendere in giudizio le proprie delibere: il Tar del Lazio non può diventare di fatto una specie di super-Antitru­st o super-Consob. Né si lede la sovranità del Parlamento ricor­dando che è l’odierna lettura del dettato costituzionale ad esigere che le leggi proteggano il mercato e promuovano la concorrenza: come i pareri dell’Antitrust puntigliosamente non mancano di ri­cordare.
Un pericolo c’è ma è opposto a quello che vedono i fautori della «normalizzazione»: che le Autorità perdano per strada le proprie diversità. Il pericolo è che perdano l’indipendenza con cui i devono garantire, che «costruiscano» il mercato con le loro norme anziché liberarlo, che diventino come le burocrazie che dove­vano sveltire. Qui serve l’attenzione critica e vigile dei mezzi d’informazione e dell’opinione pubblica. Le Autorità sono corpi estranei al nostro ordinamento amministrativo, la loro estraneità dà fastidio: ma è proprio quando non dessero più fastidio che dovremmo preoccuparci.

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