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Un Pd senza strategia é costretto a prendere lezioni da Fini

Pubblicato il 27/04/2010 @ 12:00 in Giornali,Il Foglio


Il partito di Bersani si é dipietrificato, ma vuole formarla o no una maggioranza che la pensi come CDB sul fisco e Ichino sul lavoro?
Dovrebbe indurre qualche riflessione nel PD vedere che a Gianfranco Fini, dotato di indubbia esperienza e finezza politica ma certo né un Cavour né un Moro, con qualche dozzina di parlamentari, è riuscito il mettere in difficoltà Berlusconi più di quanto abbia fatto il centrosinistra, che pure in questi sedici anni per due volte è andato al Governo.

Piuttosto che aggrapparsi ai distinguo, al paragone trito, e in questo caso irriguardoso, tra che cosa fa notizia e che cosa no, gli converrebbe riconoscerne la ragione: è perché Fini ha parlato di politica. Ricordiamolo sulla giustizia: il suo rifiuto, specifico e motivato, del processo breve, aveva più forza dialettica di quello totale e pregiudiziale, dunque antipolitico, del centrosinistra. Questo, quando prova ad avanzare proposte politiche, finisce per disorientare il suo elettorato.

Da Ministro del Governo Prodi, Pierluigi Bersani, aveva fatto approvare le famose “lenzuolate”: nello zelo era incappato in alcuni passi falsi, ma si era cucito addosso l’immagine del liberalizzatore. Che cosa capisce l’elettore di sinistra adesso che lo vede proporre, per compiacere Di Pietro, di abrogare il decreto Ronchi sulla liberalizzazione, non già dell’acqua, che resta un bene pubblico, ma della manutenzione di una rete che anch’essa resta pubblica? Che senso ha, ancor più dopo l’avanzata leghista al Nord, lasciare solo Chiamparino a sostenere che nei servizi pubblici locali gli interessi dei comuni si possono salvaguardare senza detenere partecipazioni di maggioranza, e forse senza detenerne del tutto?

“Il PD è un partito fondato sul lavoro” si legge sui manifesti. Fondato come vorrebbe Pietro Ichino, e molti con lui in entrambi gli schieramenti, oppure come propone Tito Boeri, o come Cesare Damiano che chiude all’uno e all’altro? Il Governo propone l’arbitrato e ci fa una figuraccia, mostrandosi inetto perfino nello scrivere le norme: il PD, invece di contrapporvi una posizione lungimirante, che tenga conto di come è cambiato il mercato del lavoro, preferisce incassare subito la riconferma dello status quo legislativo.

Fini contesta la versione ufficiale per cui il ritardo nel presentare le liste elettorali nel Lazio sarebbe dovuto a un complotto di radicali prepotenti e di giudici comunisti. Ma quando è scoppiato il caso, il PD invece anziché cogliere l’occasione di mostrarsi al Paese come il partito che garantisce il gioco democratico, e offrire la soluzione legislativa per uscire dal pasticcio, preferisce cercare il proprio, illusorio come si è poi visto, vantaggio a breve.

Sul federalismo, é comprensibile che ha fatto la riforma del titolo V sperando di portar via alla Lega qualche voto e non perdere le elezioni, abbia difficoltà a presentare proposte credibili. Ma sul fisco, tema centrale del rapporto tra il cittadino e lo Stato, Nicola Latorre sul Corriere chiede di ridurre l’imposizione fiscale. Carlo De Benedetti, sul Foglio, pone questo obbiettivo all’interno di un progetto più articolato: quanti vi vedono uno sberleffo a Tremonti, cui così si rinfaccia di non avere fatto nulla per attuare i suoi virtuosi propositi di sedici anni fa, anche se questi possono trovare consensi allargati, e quanti invece solo per rispetto si trattengono dal gridare all’inciucio?

Dopo il drammatico scontro pubblico, la segreteria PD punta sull’obbiettivo a breve: arruoliamo Fini ( e en passant Montezemolo e Casini) in una grande alleanza viola. Già intellettuali ricordano i giorni gloriosi dei girotondi come “festa della democrazia” (Guido Crainz su Repubblica). D’altra parte, senza un’identità propria, un’idea di Paese, un programma, dove altro si può andare a parare? E’ possibile formare una maggioranza che condivida le idee del Bersani d’antan, di Ichino sul lavoro, di Carlo De Benedetti sul fisco? La sinistra-sinistra, dopo le lezioni del 1998 e del 2007, avrà capito che conviene accettare con disciplina la vita da opposizione interna: a mettersi di traverso resta l’antiberlusconismo duro e puro. Il PD potrebbe scegliere la strategia a medio termine di conquistare le parti di elettorato che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie le istanze – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi ancora lascia insoddisfatte. Invece, pressato dal ricatto dell’antiberlusconismo pregiudiziale, sceglie l’obbiettivo di breve termine, sperando di trarre vantaggio dalle debolezze dell’ultima fase del berlusconismo. Non resta che attendere: i laburisti inglesi l’hanno dovuto fare per 18 anni prima di ritornare al governo. Ma il PD non si disperi: dopotutto Berlusconi non è una Thatcher.

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