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Un Paese stanco che ha bisogno di riforme liberali

Pubblicato il 15/03/2006 @ 13:13 in Varie


Berlusconi? Una stantia battaglia personale contro i “comunisti”

Il 9 aprile in Italia non si chiuderà solo una legislatura durata 5 anni: in realtà si chiuderà un ciclo politico durato 12 anni. E’ un arco di tempo che abbraccia l’intero percorso politico di Silvio Berlusconi, iniziato con la sua ”discesa in campo” del 1994, quando in pochi mesi riuscì a creare dal nulla un partito e una coalizione che sconfissero la “gloriosa macchina da guerra” assemblata da Achille Occhetto con quanto a sinistra era rimasto dei partiti sopravvissuti al ciclone Mani Pulite.

Fu, quella, la prima volta in cui le elezioni politiche nazionali si svolgevano con il sistema maggioritario: andava in Parlamento il candidato che raccoglieva più voti nel suo collegio – delle dimensioni circa di 100 mila elettori per la Camera e 200 mila per il Senato. Con il maggioritario erano già stati eletti l’anno precedente i sindaci di alcune grandi città: Roma Milano Torino, e l’innovazione fu salutata come simbolo del rinnovamento rispetto a una politica lontana dai cittadini, dominata da partiti corrotti, incapaci di assicurare la governabilità del Paese. Il fenomeno Berlusconi nasce nella temperie politica di quegli anni: la sua prima vittoria coincise con la prima applicazione del maggioritario su scala nazionale. Le sue caratteristiche – la sua esasperata personalizzazione della lotta politica, la sua viscerale opposizione agli avversari “comunisti” – contribuirono a radicare il maggioritario, fino a farlo ritenere un dato acquisito per sempre alla politica. A opporvisi restavano solo i partiti minori -Rifondazione Comunista, Verdi- e gli ex Democristiani a destra e a sinistra: i primi nel timore di perdere un autonomo spazio politico, gli altri nella speranza di allargare il proprio al centro. E’ vero che il referendum che doveva completare il maggioritario (abolendo la quota proporzionale alla Camera) non era passato per una manciata di voti: ma erano state approvate leggi sostanzialmente maggioritarie per le elezioni provinciali e regionali, e anche la nuova Costituzione accentuava il carattere maggioritario dando più poteri al premier e mettendolo al riparo da eventuali “ribaltoni”.
Fu quindi quasi con incredulità che si assistette all’improvviso voltafaccia con cui Berlusconi fece proprio il progetto di ritorno al proporzionale, lo impose agli altri alleati e lo fece approvare in Parlamento. Il suo ragionamento era cinico e semplice: col maggioritario, piccole differenze di voti in un gran numero di collegi possono dare uno scarto molto considerevole di parlamentari. I sondaggi incominciavano a essergli sfavorevoli: poiché l’elettorato italiano è diviso in parti grosso modo uguali tra destra e sinistra, la legge elettorale gli dava un’assicurazione contro un risultato potenzialmente catastrofico. Per assicurare la governabilità, la legge dà a chi vince un premio di maggioranza: ma, sempre nell’ottica di una possibile sconfitta. Berlusconi limitò l’entità del premio di maggioranza, introdotto per assicurare la governabilità: in tal modo rendeva indispensabile per il centrosinistra l’alleanza con Rifondazione Comunista, spostando quindi a sinistra l’asse della coalizione.
Come se non bastasse, la legge contiene dettagli tecnici che aumentano il potere di ricatto di liste anche minime e rendono concreta la probabilità di avere maggioranze diverse in Camera e Senato. Si votano liste di partito bloccate, senza la possibilità di esprimere la propria preferenza per un candidato della lista, anzi scrivere sulla scheda il nome del candidato è motivo di nullità. Cambia così radicalmente il rapporto dei cittadini con la politica: gli elettori non votano più il “loro” candidato” in collegi di piccole dimensioni, ma votano partiti in grandi collegi regionali. I partiti non hanno più necessità di candidare persone che sappiano vincere il testa a testa nei singoli collegi, tendono quindi a riempire le liste con personaggi di apparato, di sicura obbedienza.
Ritornare al sistema maggioritario sarà pressochè impossibile, qualunque sia l’esito delle elezioni. L’accordo trasversale per abrogare la legge, necessario, per la presenza nel centrosinistra, di forze favorevoli al proporzionale, è del tutto improbabile: infatti la parte che si ritiene meno forte non accetterà un meccanismo elettorale che rischia di amplificare a suo danno il divario di seggi. Per la stessa ragione anche l’arma del referendum abrogativo risulta spuntata: e poi negli ultimi 10 anni nessun referendum ha più raggiunto il quorum del 50% degli aventi diritto al voto, necessario per la validità della consultazione.

Quel percorso inziato nel 1994 si chiude definitivamente con il cambiamento di legge elettorale. Essa è il lascito più negativo, il più significativo dell’intero periodo berlusconiano. Più negativo perché distanzia i cittadini dai loro rappresentanti, aumenta il potere delle oligarchie dei partiti, riduce l’osmosi tra società politica e società civile, rende precaria la governabilità (si prevede che chiunque vinca potrà contare su una maggioranza di appena 30 deputati su 600 e 10 senatori su 300).
In una prospettiva storica, sarà anche il lascito più significativo: il sistema che aveva governato l’Italia del dopo guerra, entrato in crisi economica culminata con la svalutazione del 1992, in crisi morale con Mani pulite, in crisi istituzionale con i governi Amato e Ciampi, sembrava aver voltato pagina con l’adozione del maggioritario e con il largo ricambio di personale e formazioni politiche. Anche chi aveva considerato l’avvento di Berlusconi come una anomalia, pensava che si trattasse di una specie di scotto da pagare per diventare un “Paese normale”, e che al governo di un uomo “unfit to run Italy” – secondo la famosa copertina dell’Economist- potesse succedere un leader politico come quello degli altri Paesi. Credo che, per chi guarda le cose di un Paese vicino dall’esterno, dunque con maggiore distacco, sia interessante cogliere il senso complessivo di una vicenda politica iniziata 12 anni fa e che, proprio a causa del cambiamento di leggi elettorali, si concluderà comunque il 9 di aprile, chiunque vinca le elezioni.

In Italia invece, a un mese da quella data, il dibattito politico si concentra sull’analisi di quanto questo governo ha fatto in 5 anni e in che misura le promesse del famoso “contratto con gli italiani” sono state mantenute. Analizzate con imparzialità una per una, come ad esempio ha fatto il Sole 24 Ore, esse appaiono tutte parzialmente mantenute, ad eccezione della riduzione della pressione fiscale. Questa, per la misura e il modo con cui è stata attuata, è risultata totalmente inadatta a raggiungere il risultato a cui era finalizzata, e cioè la crescita del Paese.
Ci sono frutti del berlusconismo che il centrosinistra farebbe bene a non disperdere, ad esempio la legge Biagi, la riforma delle pensioni, perfino la legge Gasparri. Aborrita dal centrosinistra, le sue norme antitrust costituiscono un passo avanti rispetto alla precedente legge Meccanico sia sul piano logico sia su quello della severità, come dimostra l’attività di indagine che ha potuto avviare l’Autorità.
Ma è in politica estera che Berlusconi può vantare i maggiori successi: ha ottenuto che il Trattato Costituzionale Europeo venisse firmato a Roma, ha – per ora – scongiurato il pericolo che la Germania diventasse membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; uscendo dalla tradizionale ortodossia comunitaria ha cercato di costruire con Tony Blair un contrappeso all’asse franco-tedesco. Sulla guerra in Iraq, che tante lacerazioni ha prodotto nel Paese, perfino Massimo D’Alema e Piero Fassino hanno modificato alcuni giudizi, rendendo omaggio agli “iraqeni dal dito blu” che hanno partecipato alle elezioni. Se alla fine il Governo iraqeno riuscirà a riportare un po’ di ordine nel Paese, la destituzione di Saddam e la partecipazione degli italiani al dopoguerra potrebbero venire giudicati in futuro un fatto positivo.
Nella crisi della Banca d’Italia Berlusconi ha a lungo avuto un atteggiamento ambiguo. Si è alla fine riscattato nominando Mario Draghi a Governatore dell’Istituto: una scelta di cui gli va riconosciuto il merito.

Ma nell’urna ciò che conterà soprattutto sarà il giudizio sulla grave situazione economica in cui si è venuto a trovare il Paese: la crescita zero del Pil suona anche simbolicamente come inequivocabile condanna. Il Paese appare stanco, sfiduciato, diviso. Accettare il rischio di contrapposizioni nel Paese, é naturale per un governo che si proclama liberista, che è contrario a politiche redistributive, che conta sull’azione degli animal spirit nell’economia di mercato. Ma quando quello stesso Governo poi si mostra debole di fronte alle richieste degli aumenti salariali degli statali, diviso di fronte a crisi come quelle di Alitalia, incapace di liberalizzare neppure la vendita dei farmaci da banco, allora della contrapposizione, svuotata dei suoi contenuti positivi, rimane solo l’involucro di una stantia battaglia personale contro i “comunisti”.
Quando è stato eletto Berlusconi aveva l’appoggio entusiasta della larga maggioranza di Confindustria. Aveva dalla sua una parte del Sindacato e – tranne La Repubblica – di tutta la grande stampa di opinione. Oggi Berlusconi è invischiato in una polemica con il Presidente di Confindustria, il Sindacato gli è tutto contro: e l’8 di marzo il Corriere della Sera con un inusitato intervento del suo Direttore, si è apertamente posizionato a favore del centrosinistra.
Berlusconi aveva vinto nel 2001 avendo convinto la maggioranza degli elettori che, con il suo programma liberalizzatore, il Paese avrebbe conosciuto un nuovo, vigoroso sviluppo. Così non è stato: nessuno può negarlo. Ma di riforme liberali c’è un disperato bisogno: riuscire a convincerne il Paese, dopo una così cocente delusione, sarà forse la principale difficoltà che incontrerà il centrosinistra. Se vincerà le elezioni.

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