Un cavallo di Troia chiamato Fininvest

novembre 1, 1994


Pubblicato In: Varie


«Perché Berlusconi non vende le sue televisioni?» si scriveva su queste colonne nel numero di maggio, analizzando le ragioni per cui al Berlusconi imprenditore sa­rebbe convenuto, sul piano economico, mettere in vendita le sue antenne. E si concludeva che Berlusconi non vende, non perché ciò sia in contrasto con i suoi interessi economici, ma nonostante che ciò probabilmente lo sarà.

Da allora a molti ho ripetuto la stessa domanda: alcuni hanno obiettato che non ci sarebbe compratore; ma è di qualche giorno fa la notizia che in In­ghilterra è stata indetta la gara per la concessione di un’altra rete generalista via etere. E questa obiezione viene a ca­dere.

Altri hanno suggerito una spiegazione di tipo psicologico: Berlusconi non se la sentirebbe di “tradire” le persone con cui ha costruito il suo impero finanzia­rio. Ma ciò equivale ad ammettere espli­citamente l’incapacità psicologica del Presidente del Consiglio di decidere in materie in cui emerga conflitto di inte­ressi.

E’ ora possibile fare un consuntivo del prezzo politico che Berlusconi ha già pagato per non aver voluto risolvere il problema del conflitto di interessi. I mo­menti più critici per il suo Governo so­no stati quelli di scontro con la magi­stratura: il decreto “salva-amici” e la se­guente cena di Areore, che l’ha obbliga­to alla seduta notturna a Montecitorio: e la vicenda innescata dall’intervista di Borrelli. Anche se un’eventuale vendita non avrebbe il potere di amnistiare eventuali illeciti a carico di Fininvest e dei suoi amministratori dell’epoca, é chiaro che la separazione di Berlusconi dalle sue proprietà aziendali avrebbe di molto ridotto la dimensione del bersa­glio e la sensitività politica del proble­ma.

Stessa cosa lo scontro sulle decisioni del Consiglio Rai: che rimangono quello che sono sul piano culturale e gestiona­le, ma che risultano particolarmente in­tollerabili per la “bulgarizzazione” di tutto il sistema dell’informazione televisiva che ne consegue.

Il conflitto di interessi é costato a Berlu­sconi anche la prima sconfitta in Parla­mento, quando é stato bocciato il decre­to che prorogava i diritti di autore: fatto in sé minimo ma che diventa significati­vo sul piano simbolico.

Ma il prezzo più salato Berlusconi lo sta pagando sul piano politico: é il conflitto di interessi che offre a Bossi le munizio­ni più efficaci per le sue incursioni. La libertà di manovra del capo di questa maggioranza ne esce enormemente ri­stretta e condizionata. Tra i suoi due al­leati maggiori, Berlusconi é obbligato ad appiattirsi sempre di più su quello più strutturato, politicamente ed orga­nizzativamente; quindi é costretto ad ac­centuare sempre di più la sua polemica con le opposizioni, a governare con i to­ni e i temi della campagna elettorale, precludendosi quindi la possibilità di mantenere le promesse. E si pensa non tanto a quelle del tipo del milione di po­sti di lavoro, la cui natura menzognera appariva chiara a qualunque osservatore appena critico, quanto alle promesse di introdurre riforme di tipo liberista, a cui molti elettori avevano prestato fiducia. Basta guardare che cosa sta avvenendo della più emblematica delle liberalizza­zioni, quella che avrebbe dovuto essere innescata dal processo di privatizzazio­ne: gli uomini di An occupano posizioni chiave, ed i vertici delle aziende priva­tizzando trovano in An i più sicuri allea­ti perché tutto (ivi compreso il loro po­tere) rimanga com’è. E un discorso ana­logo si potrebbe fare per l’altra promes­sa del Berlusconi candidato, quella del “buon governo”, della riforma della Pubblica Amministrazione: che non si potrà neppure iniziare senza toccare gli interessi di un ceto sociale che é tra le più preziose “riserve di caccia” di Fini. Non é neppure necessario continuare: lo stesso Ferrara, non un ministro qualsia­si, ma l’incaricato del più delicato tra tutti i rapporti, quello col Parlamento, trova necessario intervenire sull’argo­mento in una lettera aperta al suo Presi­dente del Consiglio. Fatto clamoroso, che probabilmente non ha precedenti nella storia non solo della nostra Repub­blica.

Allora è impossibile non porsi la do­manda: ne vale la pena? Domanda alla quale non ci sono che due risposte: o Berlusconi non é stato in grado di valu­tare i prezzi politici che avrebbe dovuto pagare, ed allora dovranno definitiva­mente ricredersi quanti ancora pensano che, lavorando e imparando, riesca a far venir fuori la stoffa dell’uomo di Stato. Oppure il controllo di tutto il sistema dell’informazione televisiva é il vero cardine della politica berlusconiana. In questo caso si potrebbe davvero invoca­re la spiegazione psicologica: ma non già per rimandare ad un Berlusconi sen­timentalmente legato al suo passato, bensì ad un Berlusconi cui proprio l’e­sperienza imprenditoriale e il successo (ed il modo di raggiungerlo) hanno radi­cato la convinzione dell’inarrestabile potere dei media.

Tanto inarrestabile da non avere neppu­re bisogno di mostrare i muscoli. L’os­servazione di Adornato, (ripresa da Pre­viti) secondo cui il successo di Berlu­sconi non é dovuto all’uso delle reti te­levisive, spiega (forse) quanto é avvenu­to in campagna elettorale. Ma il fatto che questa maggioranza si regga sulla minaccia che le televisioni potrebbero essere utilizzate tutte (ora che anche la Rai é stata normalizzata) in una futura campagna elettorale, é ciò che ormai condiziona tutta la vita politica. Con ciò non si intende concordare con chi pensa che questo sia già un regime: ma non sapere irrevocabilmente rinunciare alla possibilità che lo diventi, è la più chiara.

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