Tv e conflitto d’interessi: la soluzione è vendere due reti Rai

giugno 5, 2001


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Creare un mercato concorren­ziale che contrasti il conflitto di interessi nel settore televisivo è il titolo di un disegno di legge che ho presentato la mattina del pri­mo giorno della nuova legislatu­ra. Infatti, con la vittoria della Casa delle libertà, il problema del rapporto tra potere politico e pote­re mediatico da un’ipotesi da di­scutere diventa un problema da affrontare. C’è largo consenso, an­che nella nuova maggioranza, che la separazione tra questi due pote­ri sia funzionale al buon funziona­mento delle istituzioni, al rappor­to di fiducia tra queste e i cittadi­ni, che è radice viva di democra­zia. A chiedere di risolvere il pro­blema del conflitto di interessi non è solo l’opposizione, ma an­che autorevoli commentatori poli­tici indipendenti; la stessa maggio­ranza dichiara di voler prendere iniziative in tal senso.

Sul principio tutti sono d’accor­do: chi ha già il potere del Gover­no non deve avere anche il potere di influenzare l’espressione politi­ca delle televisioni di cui è pro­prietario.

Invece, che l’Esecutivo possa esercitare la stessa influenza sul contenuto politico o sull’ispirazio­ne culturale delle televisioni di stato, o è considerato normale, o è accettato conte naturale: comun­que non viene negato. Al contra­rio, proprio dal fatto che il con­trollo politico sulla televisione pubblica viene giudicato il un fact of life, il Centro-sinistra trae argomenti per esigere che si ponga rimedio a una situazione in cui il futuro Governo eserciterà la sua influenza sulla quasi totalità delle reti televisive nazionali.

D’altra parte è la stessa legge a fornire alla maggioranza e, quindi, all’Esecutivo che es­sa sostiene, gli strumenti per esercitare un’influenza politica sulla Rai: il consiglio di amministrazione è nominato dai presidenti di Camera e Senato, a loro volta di nomina politica; il direttore generale, la cui nomina spettava all’Iri, è ora nominato dall’Esecuti­vo in modo diretto, senza neppure più la mediazione dell’Istituto di Via Veneto. An­che nella commissione di Vigilanza Rai la maggioranza ha la superiorità numerica. La Rai non è né la Patria né la Costituzione, è un’azienda che produce spettacoli e vende pubblicità: chiedere al Presidente della Re­pubblica di designarne i vertici — come propongono Francesco Cossiga, Eugenio Scalfati e, ieri, anche Giovanna Melandri ­è quasi irriguardoso.

Se il Centro-sinistra non è riuscito a risol­vere il problema nei cinque anni in cui ha avuto il Governo, è perché una soluzione radicale presenta costi politicamente insoste­nibili. Io credo che lo strumento della legge riesca solo a contenere e contrastare il con­flitto di interessi; credo che per raggiungere questo obiettivo esso debba essere impiega­to per vendere il 100% di almeno due reti commerciali Rai, lasciando di proprietà del­lo Stato al massimo una rete, finanziata dal solo canone e senza pubblicità. Usare lo strumento di legge per intervenire sulla strut­tura proprietaria della Rai anziché su quella di Mediaset è preferibile per una serie di ragioni.

  1. È egualmente efficace: se è il controllo di sei reti a costituire il vulnus alla democra­zia e se, come sostiene l’opposizione, lo si evita agendo sul lato Mediaset, egualmente lo si evita agendo sul lato Rai.
  2. È più risolutivo: infatti l’influenza dell’Esecutivo sulla gestione della Rai di­scende da dispositivi di legge e, quindi. esercitarla è non solo un diritto, ma un dovere della maggioranza.
  3. È più corretto giuridicamente: nulla osta a che lo Stato venda una sua proprietà, mentre ci sano forti dubbi di incostituzionali­tà nell’eventuale obbligo a vendere posto in capo a un soggetto privato, che molti giuri­sti sostengono equivalga all’esproprio.
  4. È più corretto come politica economica: la privatizzazione delle aziende di Stato è infatti uno degli indirizzi seguiti con succes­so e coerenza da tutti i Governi dal 1992 in avanti.
  5. Non è ambiguo. Anche se Fininvest ven­desse Mediaset e le sue reti, sarebbe presso­ché impossibile fugare il sospetto che Berlu­sconi possa continuare a esercitare la pro­pria influenza, a meno di mettere clausole assurdamente restrittive. Venduta che fosse, invece, la Rai, a vigilare su fusioni e concentrazioni, dunque sul controllo, for­male o di fatto, di società e di imprese, sarebbe l’Antitrust, applicando principi noti e collaudati.
  6. La parziale cessione a privati di Rai I e Rai2 era già prevista dal Ddl 1138 presenta­to dalla maggioranza nella passata legislatu­ra. Il referendum che lo chiedeva venne vinto a larghissima maggioranza.
  7. È nell’interesse delle reti vendute, perché le prepara alla situazione che si verificherà tra appena cinque anni Nel 2006 la legge prevede che sia completato il passaggio al digitale terrestre: con 70 canali in luogo degli attuali 17, il problema della proprietà pubbli­ca perderà gran parte del suo significato.
  8. È garanzia di pluralismo dell’informazio­ne. Infatti la televisione commerciale “ven­de audience”: il corrispettivo delle entrate pubblicitarie è il tempo degli spettatori. Per la natura stessa di prodotti di largo consumo — quelli che si possono permettere i grossi budget pubblicitari — non c’è correlazione tra le preferenze verso i prodotti pubblicizza­ti e opinioni politiche. Chi pubblicizza i suoi prodotti vuole che siano accolti favorevol­mente da tutti, di destra o di sinistra. Chi acquista spazi pubblicitari vorrebbe media o politicamente neutri, o che coprano l’intero spettro delle opinioni politiche. Quando un sistema vivacemente concorrenziale avesse sostituito l’attuale duopolio pubblico-priva­to, il conflitto di interessi potrebbe dirsi risolto e la garanzia del principio costituzio­nale della pluralità dell’informazione sareb­be affidata agli automatismi delle forze di mercato.

Io non credo sia realistico cercare di “ri­solvere”, nel senso pieno della parola il conflitto di interessi di cui parliamo: penso che esso debba essere contenuto e contrasta­to. Gli interessi esistono, di interessi si occu­pa la politica, i politici — tutti i politici ­sono in qualche modo portatori di interessi: anche per questo sono esposti al giudizio politico. Pensare che ciò che è di proprietà dello Stato sia di per sé neutrale, imparziale e si identifichi con il bene pubblico, da parte di chi lo crede è un’ingenuità, da parte di chi lo fa credere è un’ipocrisia. Eliminare i con­flitti di interessi che derivano dalla proprietà pubblica è anch’esso un modo per contrasta­re, rendendoli più evidenti, quelli derivanti dalla proprietà privata.

Che, poi, da ciò derivi anche un beneficio per le stesse attività da privatizzare e per l’intero sistema economico italiano, è cosa di cui sono assolutamente convinto. Ma in questo caso non è né una premessa da cui partire, né una motivazione con cui giustifi­care: è un ulteriore incentivo ad adottarlo, un non casuale corollario.

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