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Troppa paura di disturbare i banchieri

Pubblicato il 06/11/1996 @ 12:56 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Vi sono sempre stati due modi di affrontare il problema delle fondazioni bancarie. Vi è chi ritiene che si debba intervenire sulle fondazioni che possiedono le banche, indicando di che cosa esse si debbano occupare e in quale regime giuridico debbano operare, e chi invece ritiene che le fondazioni debbano, prima di tutto, vendere le banche.

Il disegno di legge delega annunciato nei giorni scorsi dal Ministro del Tesoro ad opera della commissione presieduta dal sottosegretario Roberto Pinza, pur lasciando aperta la possibilità che la legge delegata introduca alcune norme che faciliteranno la dismissione delle banche, sceglie la prima via. E infatti il titolo del provvedimento è “Disegno di legge delega per il riordino della disciplina degli enti conferenti”: non si fa cenno alla dismissione delle banche. Il risultato è che la privatizzazione delle banche diventerà possibile, ma non obbligatoria.
Quelle fondazioni, Cariplo ad esempio, che già si sono convinte dell’opportunità di vendere una quota della partecipazione nella banca, potranno finalmente procedere con le parziali dismissioni progettate, in quanto la legge delegata eliminerà gli ostacoli tecnici che oggi si frappongono – prevedendo in particolare la possibilità di imputare al patrimonio, anzichè al conto economico, l’eventuale minusvalenza. Ma quelle fondazioni e associazioni (ad esempio Monte dei Paschi e Banca di Roma) che mai hanno dimostrato alcun interesse a vendere la banca, continueranno tranquillamente a possederne il 100 percento.
Ciò non significa che non sia opportuno intervenire sulle fondazioni. Anzi, a nostro avviso anche in questo campo il provvedimento del Tesoro è eccessivamente debole – ad esempio non fissa, come alcuni peraltro avevano suggerito, uno standard minimo al rendimento del patrimonio, nè si impone che esso debba essere affidato in gestione ad intermediari specializzati. Ma intervenire sulle fondazioni con provvedimenti che non determinano la privatizzazione delle banche in tempi certi, al meglio è un esercizio accademico, più probabilmente riflette la volontà politica di non disturbare una lobby potente: se non di utilizzarla per muovere verso un riassetto gia’ prestabilito.
Più in particolare:

1. Gli incentivi fiscali proposti dal disegno di legge delega sono di dubbia efficacia, introducono una potenziale discriminazione tra soggetti diversi che possiedono le medesime azioni, e creano incertezza di diritto. Innanzitutto gli incentivi fiscali — sostanzialmente a vantaggio dei compratori, dato che per i venditori emergeranno minus- e non plusvalenze — producono un differente trattamento fiscale tra sottoscrittori individuali e istituzionali, e una disparità verso quelle banche le cui azioni già sono solo mercato. Le vendite avverrano in più tranches su un arco di tempo lungo: i benefici fiscali, anticipati rispetto alla perdita di controllo cui sono finalizzati, creano incertezza di diritto: che cosa accade a chi ha acquistato le azioni beneficiando di un vantaggio fiscale se, cinque anni dopo, la fondazione non ha perso il controllo, e quindi la giustificazione del beneficio fiscale viene meno?

2. Il disegno di legge delega è (volutamente?) vago nei suoi obbiettivi, perchè non definisce in che consista la perdita di controllo: significa scendere al 49% o al 15%?

3. Il disegno di legge delega non prevede tempi certi per la privatizzazione delle banche. Ciampi, parlando alla giornata mondiale del risparmio, è stato severo verso le banche: lente nell’innovare, con una redditività bassa e, soprattutto, frutto della protezione naturale di ampi divari tra tassi attivi e passivi, con costi operativi unitari superiori a quelli di vent’anni fa, con un’ampia quota di impieghi non remunerativi. A fronte di tale emergenza, è giustificato il tempo di 5-10 anni previsti dal Progetto Pinza? Ricordiamo che nel disegno di legge da noi proposto questo tempo era contenuto in due anni.

4. Riconoscere l’esigenza che l’iniziativa privata si affianchi all’intervento pubblico nella fornitura di beni di interesse generale è una cosa, soddisfarla un’altra. Le fondazioni non hanno dato buona prova di sé nella gestione delle banche critiche. Ma anche se avessero bene amministrato le banche, chi ci assicura che le medesime persone siano in grado di svolgere in modo efficiente i nuovi compiti che alle fondazioni vengono assegnati? Ricordiamoci che l’insieme delle fondazioni gestirà un patrimonio ingente, dell’ordine di diecine di migliaia di miliardi. Come si selezionano i nuovi amministratori? A chi rispondono? Il disegno di legge delega lascia alle fondazioni lo stabilire statutariamente come assicurare “nell’ambito dell’organo di indirizzo, la rappresentanza degli interessi perseguiti”, mentre la vigilanza sulla “effettiva tutela degli interessi contemplati dagli statuti” è affidata a una nuova autorità indipendente.
Optare per una nomina pubblica sarebbe in contrasto con l’indirizzo privatizzatore; ma la scelta di consegnarele fondazioni a notabilati locali che si perpetuino per cooptazione, centralmente controllati dall’ennesima autorità, non sembra delle più brillanti. Nella nostra proposta, la rappresentanza locale veniva assicurata da una assemblea con larga rappresentanza degli interessi locali, culturali ed economici: soluzione non senza inconvenienti, ma che almeno evitava che l’elemento centralistico, scacciato dalla porta, rientrasse dalla finestra.

5 Efficienza delle banche. Il disegno di legge delega dimostra una singolare fiducia che il passaggio di proprietà sia di per sé garanzia di efficienza nella gestione delle banche. Questa tuttavia dipende da quale sarà il nuovo assetto proprietario e soprattutto da un efficiente mercato dei diritti di proprietà. Il nostro progetto forniva alle fondazioni strumenti che attivavano la competizione per il controllo, dunque l’efficienza. Non farlo, in assenza di investitori istituzionali forti, fa correre il rischio che questa privatizzazione dia luogo a gigantesche public company, sostanzialmente nelle mani del management, magari in tacito accordo tra loro. E’ ben diverso se le fondazioni privatizzano con aumenti di capitale suddivisi tra lo sterminato numero dei loro correntisti, oppure se la privatizzazione avviene dopo aver attivato una serrata competizione tra soggetti interessati.
L’incentivo fiscale alle persone fisiche che terranno in portafoglio le azioni bancarie per un certo periodo – i 5 o 10 anni previsti per il processo di privatizzazione – - il silenzio sulle quote che determinano il controllo: tutto lascia pensare che il proposito ispiratore del disegno di legge delega sia di pilotare una lenta ristrutturazione del settore verso assetti preferiti se non predefiniti, anziché di lasciare che questa avvenga sotto la spinta del mercato.
6 La determinazione del patrimonio delle fondazioni è infine il problema centrale. Il mercato attribuisce alla banche un valore che dipende dalla loro redditività; esso è largamente inferiore ai valori scritti nei libri delle fondazioni. Quanto prima questa discrepanza verrà colmata, tanto meglio sarà per il sistema economico. Pensare che ciò avvenga per via di un’aumentata efficienza delle banche, mantenendole per 5 o 10 anni in un ambiente protetto, senza concorrenza per acquisire il controllo, è pura illusione. O le fondazioni accettano di vendere a prezzi di mercato, ed allora i tempi sono eccessivi e le facilitazioni fiscali inutili. O invece si consente alle fondazioni di eludere il confronto con la realtà, facendo assorbire lentamente al mercato prezzi irrealistici, e allora il costo del riadeguamento dei valori viene trasferito sui singoli risparmiatori. Che ciò avvenga per consentire alle fondazioni di compiere i loro nuovi nobili scopi sociali sarà, per essi, una magra soddisfazione.

In conclusione: la generosità del Tesoro verso le fondazioni è mal riposta. E’ eccessiva nei tempi per fare ciò che è urgente, privatizzare le banche; e’ insufficiente negli obbiettivi, perche’ consentire di scendere solo al 49% significa eludere il problema; e’ incauta come “apertura di credito” verso soggetti di fatto nuovi, che devono costruire e dimostrare la propria capacita’ di assolvere alle nuove funzioni.
Chi garantisce che le fondazioni gestiranno le nuove attività ad esse affidate in modo tanto efficiente, e con altrettanti risparmi di spesa pubblica, da giustificare il beneficio fiscale sottratto all’erario e ad esse concesso?

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