Tra equilibrismi e ambiguità i Ds “muoiono”

luglio 24, 2001


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Quanti voti hanno perso i DS…?

Quanti voti hanno perso i DS tra venerdì e domenica? Difficile pensare che ne abbiano conquistati, né tra quelli che condividono le ragioni dei 200.000 che hanno sfilato a Genova, né tra quelli che le avversano. A consuntivo si deve constatare che la «confusione» a cui Giuliano Amato, per carità di patria, attribuiva il comportamento del partito e da cui era scaturita la decisione di marciare a Genova insieme ai contestatori, è costata ai DS un prezzo assai alto: ridotta al ruolo di comparsa la loro presenza mediatica, agli occhi dell’opinione pubblica sono apparsi come quelli che dànno risposte assennate, ma che non incidono né sulla comprensione né sull’evoluzione del fenomeno che stanno commentando.

I DS pagano il prezzo di un errore politico: quello di avere concentrato l’attenzione sul modo con cui si esprimeva la protesta, anziché sui temi che la protesta voleva esprimere; di avere discusso sull’opportunità di marciare con i contestatori, piuttosto che sulla possibilità di condividerne le idee. Hanno sbagliato domanda: non dovevano chiedersi se fosse logico partecipare ad una manifestazione di protesta contro un evento predisposto dal Governo di centrosinistra, ma se i presupposti ideologici degli antiglobalizzatori potessero essere condivisi da un partito che ha espresso il governo di un grande paese capitalistico. Hanno guardato il fenomeno e non preso posizione sulle radici da cui nasce.I DS hanno creduto di potere eludere il problema con l’equilibrismo di Furio Colombo (L’Unità del 19 Luglio) secondo cui «ci sono buoni motivi per andare a Genova e ci sono ragionevoli obiezioni all’utilità di presentarsi accanto ai dimostranti». L’ambiguità della vecchia formula del partito di lotta e di governo, dato e non concesso che sia mai servita al PCI che lottava, diventa inagibile dopo che i DS hanno governato.
Perfino Massimo D’Alema (La Repubblica del 18 Luglio) anziché rivendicare con forza quello che i suoi governi hanno fatto, si limita ad assegnare alla sinistra «questo ruolo: dialogare, indicare le priorità [...], saldare quel corpo di richieste alla sinistra europea».Si è pensato che ad esorcizzare il peggio bastasse indicare, con Adriano Sofri (La Repubblica del 19 Luglio), quanto «sarebbe bello rifiutarsi davvero, fieramente, alla violenza; avere la prima pietra a portata di mano e dire no grazie, e andare per la propria strada». Non dovevano essere necessari i lutti di Genova per riconoscere che l’errore sta proprio nel limitarsi a espungere la violenza dalla protesta, anziché confrontarsi con le ideologie di cui la protesta si alimenta; perché non ci sono buoni maestri se la materia è sbagliata.Adesso le critiche alla strategia usata dalle forze dell’ordine, alle azioni e alle omissioni, soprattutto gli inquietanti interrogativi suscitati dal raid notturno esigono che la sinistra spenda tutta la propria forza e la propria autorevolezza. Ma con quanta maggiore forza potremmo farlo se la nostra posizione sul merito della protesta fosse stata quella di un’opposizione di governo! Se sapremo fare opposizione con efficacia e concretezza potremo recuperare in termini di visibilità e di prestigio. Ma sarebbe un altro errore se questo recupero diventasse pretesto per esimersi dall’affrontare la questione di fondo, e cioè dal prendere posizione sul merito: e cioè che le tesi agitate dagli anti-G8 e dal Genoa Social Forum sono incompatibili con un partito che ha retto un paese a economia di mercato come l’Italia e che vuole tornare a guidarlo. Un partito che ha governato un Paese come il nostro non può accettare il contesto logico e programmatico di rifiuto del mercato e del profitto in cui sono organicamente inserite le istanze avanzate dagli antiglobalizzatori.
Un partito che al governo ha assunto impegni internazionali non può non opporsi a un movimento nato e cresciuto sulla contestazione sistematica di ogni organismo internazionale, che si tratti del WTO o del FMI o del G8.
Un partito che ha esperienza di governo di un grande paese non può non sapere che le contraddizioni – e caratteristica costitutiva del «movimento dei movimenti» è proprio la giustapposizione di istanze tra loro contraddittorie – sono il terreno di cultura delle degenerazioni a cui abbiamo assistito.
Un partito di governo deve fornire, contro equivoci e demagogie, «qualche ancoraggio al principio di realtà», come suggerisce Lucio Caracciolo (La Repubblica del 20 luglio): che il G8 non è il Governo del mondo e che anzi dei grandi del mondo mette a nudo più le impotenze che il potere; che i paesi poveri del mondo non sono stati privati di una loro mitica età dell’oro, che quello dello sviluppo è un percorso incerto, senza una relazione meccanica tra aiuti e sviluppo; e infine che i terzomondisti non rappresentano i terzomondiali.I temi della lotta alla povertà, della riduzione dell’inquinamento, della battaglia contro le moderne pestilenze, della crescita e dello sviluppo sono nell’agenda dei Governi e delle organizzazioni internazionali. Lo specifico del movimento antiglobalizzatori non sono questi temi, su cui non può vantare diritti né esclusivi né di primogenitura, bensì la prospettiva ideologica in cui li inserisce e le azioni operative per cui li usa. Sono questa strategia e questa pratica a risultare incompatibili con le privatizzazioni e le liberalizzazioni, con la presenza nei Balcani e l’intervento in Kosovo, con le iniziative legislative per far funzionare meglio i mercati, dei capitali, dei prodotti, del lavoro: le cose che ha fatto il centrosinistra al Governo. Che cosa abbiamo fatto, dovremmo chiederci, per diffondere questi «principi di realtà» nell’opinione pubblica, in particolare tra i giovani? Che cosa abbiamo fatto quando eravamo al Governo, e che cosa facciamo oggi che cerchiamo di riorganizzarci per ritornarvi? Un pezzo del partito ha cercato di ricavare dalla politica e dall’azione di Governo risposte a «l’inquietudine dell’esclusione, la percezione del rischio che si accompagna alla modernità, la lontananza della istituzioni, il linguaggio vuoto della politica, il bisogno di rappresentanza» (Ezio Mauro, La Repubblica del 21 Luglio). Accanto ad esso un altro pezzo di partito ha preferito tenersi aperte strade alternative: il buonismo terzomondista, l’aspirazione a dire qualcosa di sinistra, e infine la speranza in un qualche colpo risolutivo. Ma su questa strada, quanto a terzomondismo Don Gallo è più trascinante di Veltroni; quanto a sinistra risuona meglio l’affabulare invasato di un Agnoletto, e quanto a fede nessuno supera Fausto Bertinotti nello scorgere in Genova l’inizio di una nuova era. Finchè i DS erano al Governo, si poteva credere che la necessità stessa di governare consentisse – secondo alcuni addirittura richiedesse – di nascondere tutte le differenze nell’unità del congresso di Torino. Ora che siamo all’opposizione, l’equivoco è la cosa che meno di ogni altra ci possiamo permettere. Per il bene dei DS (e del bipolarismo), è necessario che dal congresso di Novembre esca una leadership su posizioni nette. Se sarà servita a riflettere sui costi dell’ambiguità, del non scegliere, della timidezza nel rivendicare la continuità con ciò di cui si è data dimostrazione negli anni di governo, forse la vicenda di Genova non sarà stata inutile.

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