TFR, artifici pericolosi

settembre 12, 1997


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Secondo Francesco Giavazzi ( Liquidazioni, una proposta, sul “Corriere della Sera” del 10 Settembre), bisognerebbe che le imprese avessero il coraggio di rompere la fossilizzazione dell’istituto del TFR, e ne versassero spontaneamente l’intero stock, pari a 200.000 miliardi, ai lavoratori che ne sono titolari, in anticipo rispetto al momento della loro maturazione.

Posto che il rendimento finanziario del TFR e’ stato negli ultimi 30 anni di un punto inferiore all’inflazione, il fatto che i sindacati non ne abbiano finora chiesto una diversa gestione rimane per Giavazzi ” un mistero”. In realta’ fino al 1982 il Trattamento di fine rapporto veniva calcolato sull’ultima retribuzione: in periodi di alta inflazione e di vivace dinamica salariale, era la forma di finanziamento di gran lunga piu’ onerosa per le imprese, e di converso la piu’ vantaggiosa per i lavoratori. Il TFR e’ poi entrato come uno dei tanti elementi in negoziazioni contrattuali complesse: e’ un esercizio un po’ accademico isolarne uno ed immaginarne la dinamica “come se” esso non fosse stato ad altri correlato.
Per l’altra parte negoziale, e cioe’ le imprese, e’ assolutamente vero che il TFR ha anche avuto la funzione di stampella per il nostro capitalismo familiare, rallentando l’affermarsi di forme piu’ moderne di controllo societario. Una maggiore lungimiranza da parte del capitale privato avrebbe giovato innazitutto al sistema delle imprese private. Ma negli anni 80 chi aveva interesse a far nascere intermediari finanziari privati? Non il Governo, che avrebbe visto diminuire il controllo del credito attraverso le banche pubbliche. Non le imprese che, indebitandosi, sarebbero risultate ancora piu’ deboli verso un sistema pubblico allora in aggressiva espansione. Oltretutto col rischio che finisse con i sindacati a gestire il TFR.

Cio’ che non era possibile e comunque non e’ stato dieci o quindici anni fa, potrebbe essere vantaggioso oggi. Ma innazitutto: e’ sostenibile? Certo la riduzione del costo del denaro riduce il vantaggio per le imprese di finanziarsi con le liquidazioni dei dipendenti: ma questo vale solo per le maggiori, che possono godere di bassi spread tra tassi attivi e passivi.
Il conto non puo’ esser fatto solo per il campione di 1700 imprese di Mediobanca, ma va esteso al totale delle imprese italiane. Si ha l’impressione che sia come tassi, sia come limiti di fido, per un gran numero di esse si tratterebbe di un’operazione devastante. E anche se la proposta dovesse essere limitata alle sole aziende quotate, e’ vero che una cosi’ ingente massa di risparmio restituito al mercato finanziario lo trasformerebbe, ma solo una parte di questo risparmio riaffluirebbe alle imprese: oggi un gestore di un fondo generico italiano (quindi tendenzialmente sovrainvestito in Italia) non investirebbe piu’ del 15% in azioni italiane.

Ridimensionata la proposta alle sole imprese maggiori, si ridimensiona anche il possibile vantaggio di uno scambio contrattuale tra TFR e flessibilita’. Piu’ che per le grandi imprese, per le cittadelle degli insider superprotetti dai sindacati, la flessibilita’ – di orario, ma soprattutto in uscita- e’ condizione vitale in primo luogo per il mondo delle imprese medie e piccole. Ma esse, per la ragioni suespote, non avrebbero nulla da offrire in cambio.
Sia pure limitata alle imprese maggiori, sia pure svincolata da vantaggi negoziali immediati, l’iniziativa potrebbe essere finalizzata a far crescere investitori istituzionali privati: sarebbe questo un obbiettivo strategico di tale importanza da giustificarla. Ma basterebbe a realizzarlo? Gli investitori istituzionali nascono per gestire il risparmio: questo e’ abbondante, disponibile ad investire in banche e imprese, come hanno dimostrato ENI e S.Paolo, come dimostreranno Telecom e Cariplo. Ma se al mercato si assegna sempre e solo un ruolo residuale, se nelle privatizzazioni alle OPV si preferisce la ricerca, anche un po’ forzata, di noccioli duri e nuclei stabili, se i voucher vengono visti come strumenti esotici ed inapplicabili, se non si esige che i patrimoni delle Fondazioni siano gestiti da investitori professionali, sara’ difficile che essi si affermino. E’ solo congiuntamente ad orientamenti politici diversi che il “sacrificio” da parte delle nostre maggiori imprese potrebbe sortire l’effetto desiderato.
Quella che francamente lascia un po’ perplessi e’ l’ultima ragione avanzata a sostegno della proposta, vale a dire i 40.000 Mld di imposte dovute che in tal modo si libererebbero, e che potrebbero rendere piu’ “morbide” un paio di finanziarie. Si tratta, ad ogni evidenza, di un anticipo di imposta: e che questa sia una buona e sana ricetta, e non rischi invece di essere pretesto per rinviare ancora i tagli di spesa e’ cosa su cui ciascuno puo’ giudicare. Stupisce che cio’ venga proposto proprio da Francesco Giavazzi, che dalle colonne del Corriere con rigore di ragionamento e precisione di dati non manca di ammonire sulla labilita’ dei risanamenti condotti con l’arma del prelievo rispetto a quelle condotte con la scure del tagli.

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