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Archivio per il Tag »Piero Ostellino«

→  giugno 22, 2014


di Piero Ostellino
«I l problema non sono le regole; sono i ladri». La frase, pronunciata da Renzi a commento dello scandalo del Mose, avrebbero potuto dirla Antonio Di Pietro o qualsiasi altro uomo politico della Prima Repubblica. È figlia della convinzione che, dopo Tangentopoli e Mani pulite, la politica la si possa fare solo delegandone la gestione alla magistratura e ai carabinieri. Che piaccia o no, è la definitiva trasformazione del Partito democratico nella vecchia Democrazia cristiana o, se si preferisce, in una specie di neoberlusconismo di sinistra. L’occupazione del potere per, poi, non usarlo che per conservarlo. Le chiacchiere sulla rottamazione delle generazioni precedenti, sul loro ricambio con le nuove e sulla politica di cambiamento, che Renzi continua a ripetere anche ora che è segretario del Partito democratico e sta al governo come se non lo fosse, sono state un’operazione di marketing per pervenire al ricambio di una classe dirigente postcomunista, logorata dal consociativismo con la Dc e ormai esausta, che non aveva più nulla da dire. Nel Paese, quelle chiacchiere sono state la forma che il trasformismo inaugurato nel 1876 con la caduta della destra storica e l’avvento della sinistra (liberale) ha assunto nell’era della comunicazione, che conta più della realtà effettuale e la crea e col quale, nel passato, si erano sempre mascherate, con doppiezza controriformista, operazioni di puro potere personale, politicamente legittime sotto il profilo formale, ma discutibili sotto quello degli interessi reali del Paese. Con Matteo Renzi, cui pare piaccia più essere capo del governo che farlo, la politica italiana registra il ritorno ai metodi della vecchia Dc. L’ex sindaco di Firenze, che è ambizioso e non lo nasconde, ha capito che prendersela con i ladri e promettere demagogicamente un futuro luminoso solletica il moralismo e il pressapochismo populista e non costa; anzi, rende, purché non si metta mano alle condizioni strutturali che generano i ladri. La frase che il problema non sono le regole, sono i ladri, è una riproposizione di quella sul «mariuolo Chiesa», che Craxi aveva usato per tenere fuori il Psi dallo scoppio di Tangentopoli. Ma quando Craxi chiamò, in Parlamento, le forze politiche ad assumersi collettivamente la responsabilità del finanziamento illecito dei partiti e a fare i conti con le degenerazioni del «sistema», fu isolato; Dc e Pci si spartirono il potere, l’una, quello istituzionale e economico; l’altro, quello culturale e politico, decretando, con la fine del Partito socialista come forza potenzialmente riformista, il trionfo del peggior conservatorismo. Il segretario del Psi sarebbe morto in esilio, mentre in Italia, con il compromesso storico, si sviluppava il progressivo degrado del Paese. Renzi ha fatto astutamente tesoro del fallimento del tentativo riformista craxiano per scalare, riuscendoci, sia la direzione del Pd, sia quella della politica nazionale. Se non toccherà gli interessi consolidati dalla struttura sociale corporativa ereditata dal fascismo, in altre parole, se non farà nulla di più di «promettere che molto, non tutto, è già stato fatto», come sta dicendo incessantemente, è probabile resti a lungo a Palazzo Chigi. Certo, qualcosa farà, una (parziale) riduzione della spesa pubblica, ormai fuori controllo, e una (relativa) razionalizzazione della Pubblica amministrazione perché la stessa forza delle cose glielo impone, ma non ridurrà l’eccesso di intermediazione politica rispetto alla sfera privata, che è la vera causa della corruzione. Non darà, come sarebbe auspicabile, più spazio al mercato, e al merito, rispetto al familismo e clientelismo amorale sul quale si regge l’intero Ordinamento politico e giuridico dal 1948. Le regole, in un Paese dove per costruire un nuovo capannone per la fabbrichetta, malgrado tutto felicemente in espansione, o per convertirla, ci vogliono decine di permessi, licenze, concessioni, si perde molto tempo per districarsi nella giungla burocratica e si spendono molti soldi in avvocati e consulenti, e dove il cittadino-contribuente non riesce più a orientarsi nel mare di una legislazione fiscale disordinata e invasiva, finendo regolarmente con essere trattato come suddito, contano caro Renzi, e come contano ! Sono esattamente le regole che lei dovrebbe cambiare. Ma che, temo, non cambierà perché ha capito che sarebbe defenestrato all’istante. Da vecchio democristiano, lei sa, andreottianamente, che il potere logora chi non ce l’ha. Perciò, dal governo, sta logorando il suo stesso partito, come la Dc aveva fatto, a suo tempo, sempre dal governo, col Pci e le stesse capacità di resistenza del Paese. Non è detto sia necessariamente un male; ma è altrettanto lecito dubitare, non solo da sinistra, che «morire democristiani» sia un bene.

→  ottobre 19, 2013


di Piero Ostellino

Per battere il negazionismo basta il buonsenso, non serve una legge

La bulimia legislativa del nostro Parlamento – figlia di una cultura «buonista», formalmente collettivista e sostanzialmente illiberale della classe politica – ha prodotto un’altra legge priva di senso. La Commissione giustizia del Senato ha licenziato un testo che prevede la condanna da uno a cinque anni «a chiunque nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio contro l’umanità». Diciamola, allora, tutta: chi andasse in giro a negare quello che hanno fatto Pol Pot in Cambogia e Stalin in Urss, in nome di un’idea personale e criminale di egualitarismo; l’uccisione di preti, suore e di gente comune, da una parte e dall’altra, durante la guerra civile spagnola, passerebbe per matto.

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→  febbraio 11, 2006

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Il dubbio

di Piero Ostellino

A Otto e mezzo, giovedì scorso, il senatore Franco Debenedetti ha accusato Berlusconi di aver «spaccato» il Paese. Berlusconi ha ritorto l’accusa sulla sinistra. Fine della discussione. Ma che vuol dire «spaccare il Paese»? Vuol dire—a sinistra come a destra—governare, prendere delle decisioni. Per molti italiani è del tutto intollerabile che non vinca le elezioni la propria parte politica e, soprattutto, è del tutto illegittimo che il governo della parte avversa faccia poi una politica diversa da quella che farebbe la propria.
Da noi, la democrazia è una «categoria dello spirito», da professare; guai se diventa una «categoria della realtà», da vivere. Domenica scorsa, Furio Colombo ha citato, nel suo articolo di fondo sull’Unità, la lettera con la quale un lettore sosteneva testualmente che, qualora Berlusconi vincesse le elezioni, lui vivrebbe i cinque anni successivi «nel terrore» (!?). Casi analoghi si trovano a destra.Mi sarei aspettato che Colombo liquidasse l’affermazione come una colossale fesseria. Invece, l’ha presa sul serio. E se incominciassimo noi, giornalisti, a essere un po’ più seri?
Personalmente, sono dell’opinione che l’Italia democratica non sia mai stata tanto viva e fertile come quando
si è «spaccata»: dall’adesione alla Nato alla guerra in Iraq; dai tempi dei referendum sulla scala mobile, sul divorzio e l’aborto, a Tangentopoli e Mani pulite. Le «mezze riforme» del governo Berlusconi sono state — per molti fra i suoi stessi elettori — un «mezzo insuccesso»; per gli elettori del centrosinistra sono cattive. Ma a me pare che il governo di centrodestra — quale che sia il giudizio sulle riforme—abbia avuto, se non altro, un merito.
Quello di aver sollevato problemi ignorati da tutti i governi precedenti «per non spaccare il Paese». Senza l’«anomalia Berlusconi»—che sull’argomento ha davvero «spaccato» il Paese — si sarebbe mai parlato di una magistratura corporativa, autoreferenziale, professionalmente inadeguata, come ha fatto ancora di recente una fonte non sospetta, il presidente della Cassazione? Non corriamo il rischio che il centrosinistra, una volta vinte le elezioni, invece di migliorare la riforma del centrodestra, finisca con sotterrare definitivamente il problema?
Non sono fra quelli che paventano un successo del centrosinistra, ma una cosa la temo: che il Paese sprofondi
nuovamente nella palude del politicamente corretto, della concertazione, delle «questioni morali» (che mascherano le «questioni politiche»), della stabilità sociale (che giustifica la dispersione di ricchezza), dell’unanimismo inerte (che mortifica il riformismo e soffoca la modernizzazione e al riparo del quale ingrassano gli interessi corporativi). Vorrei vivere in un Paese in cui su una cosa fossimo tutti d’accordo: che la democrazia è alternanza di governi di destra e di sinistra le cui politiche differiscono nei mezzi, e sui mezzi «spaccano il Paese», ma non mettono in discussione il fine (le libertà). Vorrei una sinistra che avesse il coraggio di riformare (anche) la prima parte della Costituzione, che è frutto di un compromesso, ha a suo fondamento una serie di anacronistiche astrazioni collettive (dal lavoro all’interesse sociale, che condizionano i diritti individuali come la proprietà e la libertà di intrapresa). I nazisti non sono più alle porte, Prodi non è il capo del Cln e le Costituzioni liberali sono procedurali. I programmi di governo li decidono gli elettori.

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9 febbraio 2006